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La “Medea” di Andrea Cramarossa: un’ipergeometria delle relazioni

Posted on: 03/01/2018

La “Medea” di Andrea Cramarossa: 

un’ipergeometria delle relazioni.

 

di Fabiana Mercadante

Nell’imminenza del terzo anniversario della scomparsa di Nicola Saponaro, morto il 24 gennaio 2015 all’età di settantanove anni, pubblichiamo la recensione classificatasi al secondo posto del Premio di Critica e Storia del Teatro under 35 intitolato alla memoria del grande drammaturgo; l’iniziativa era stata fortemente voluta dal cutamc (Centro interuniversitario per il Teatro, le Arti visive, la Musica e il Cinema) dell’Università di Bari, dall’Associazione “Attraverso lo spettacolo” e dalla Biblioteca del consiglio regionale della Puglia “Teca del Mediterraneo” (che custodisce il prezioso Archivio privato donato da Saponaro). L’autrice, Fabiana Mercadante, è direttrice artistica di “Flooding lab – Collettivo di sperimentazione sulla narratività e i linguaggi della contemporaneità”. Il blog di «incroci» aveva già ospitato la recensione di Irene Gianeselli classificatasi al primo posto della sezione “Recensione”, mentre nel prossimo fascicolo della rivista (giugno 2018) apparirà il saggio di Marica Mancini risultato vincitore nella sezione “Saggio inedito sulla storia del teatro”.

 

La capacità di un segno di contenere in nuce un’informazione sul suo contrario è una delle qualità più affascinanti di un atto comunicativo. In questo senso il gioco delle risonanze di un figurante visivo o sonoro sulla percezione del destinatario di un’opera teatrale viene a svilupparsi intorno alla possibilità di costruire ampi spazi di negoziazione del senso. A partire da ciò incontra stimoli lo spettatore, nell’interpretare un’opera che non offre rifugio e appiglio nella parola, ma che tesse, per il suo sentire, una pura grammatica del suono e una corpometria dello spazio. È il caso della Medea del regista barese Andrea Cramarossa, un’opera che rinunciando al potere della parola, ci pone di fronte all’irruzione del logos (e del linguaggio che lo incarna) entro la logica del corpo e delle percezioni, per ridefinire tempi e modalità espressive del gesto, del suono e soprattutto dello spazio.

La sala è buia. Il silenzio guida l’entrata in scena dei personaggi dalle quinte. Non uno sguardo, un cenno di riconoscimento tra i corpi che indagano lo spazio, procedendo in linea retta. Di lì gli attori  lasciano parlare il gesto, breve, ripetuto, spezzato, ossessivo: un togliere e pulire nevrotico, necessario.

Medea è al centro del quadrato disegnatole intorno dalle figure che la circondano. Regale nel suo abito bianco e nero. Completa, a differenza dei personaggi fermi agli angoli, con indosso ognuno un solo colore, quel bianco o nero che ne denuncia il rango e ne preannuncia il destino di sconfitta. La regina, al centro di questa scacchiera immaginaria, dà voce al suo dolore per il tradimento subito. Il suono è ancestrale, disarticolato, e introduce il movimento dei personaggi all’interno di quella geometria perfetta. Come mosche, i corpi in esplorazione dell’Altro si agitano ricalcando il perimetro di un doppio quadrato.

Sono passati quattro anni da quando nel 2012 il “Teatro delle bambole” inaugurava la sua ricerca sulla lingua degli insetti: uno studio sul movimento che trae origine dall’osservazione del comportamento di questi animali. A ispirare la ricerca attuale è, in effetti, proprio la mosca, dittero per antonomasia, animale apolide e ubiquitario.

Sotto la lente del regista che rinuncia a portare in scena la parola, le dinamiche relazionali dominate dalle logiche di potere traggono origine da un destino di cui Medea sembra essere la mano. Dinamiche che proprio quella lingua degli insetti è chiamata a interpretare ispirando il movimento degli attori sulla scena, i loro gesti e l’uso del suono. La regina della Colchide conosce alla perfezione quella lingua arcaica delle mosche, insetti non sociali, naturalmente inclini a disegnare in volo un doppio quadrato per delimitare lo spazio: un movimento che prelude, solitamente, l’attacco e il conseguente combattimento. Certo, Medea conosce quella lingua, ma non per questo ne accetta passivamente la struttura. Piuttosto dà vita a un nuovo linguaggio che dai padri eredita la passionalità in nome dell’orgoglio e del rispetto dei legami di sangue.

Al tradimento di Giasone, provocato dalla sete di potere e ascesa sociale, Medea contrappone la logica del sentimento e degli affetti, generando così il seme della tragedia: quella contraddizione lacerante tra l’impulso alla vendetta e il legame che la unisce alla sua famiglia d’origine e ai suoi figli. Il lavoro sul suono è profondamente intimo, dacché la parola è del tutto assente dalla messa in scena, a favore delle sonorità disarticolate, correlativo immediato agli impulsi nervosi che animano i personaggi.

Dal momento che la parola è assente, lo spettatore è chiamato a concentrare l’attenzione sulle articolazioni e le fratture che intercorrono tra un segno e l’altro. Perché è dentro quelle parentesi bianche che risiede l’impotenza, il nulla da cui la Medea umana trae la sua forza divina. Lo spazio della narrazione è il perimetro entro cui la maga tesse i suoi giochi di potere, creando così una mappa di tensioni e frustrazioni che attraversano i personaggi e la loro gestualità compulsiva.

Se uno dei compiti più ardui del teatro di ricerca consiste proprio nella definizione di una sua identità, senza per questo cedere alle lusinghe di una struttura inespugnabile quanto sterile, con il lavoro su Medea il “Teatro delle bambole” offre un contributo importante all’impresa. L’opera, infatti, installa, con la delicatezza pungente dell’insetto, un discorso complesso quanto attuale sulle relazioni parentali tipiche delle strutture a impianto mafioso nella società contemporanea del Sud Italia, dal cui paesaggio l’arte di Cramarossa prende la sua peculiare forma. Alla piattezza decadente dell’individualismo di massa Medea sostituisce, con la violenza dell’archetipo, una mappa di pulsioni e desideri ancestrali che solo il fuoco della vendetta, istanza cardine della narrazione, è in grado di far riemergere.

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