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Giulio Guidorizzi, Enea, lo straniero. Le origini di Roma

Posted on: 25/04/2021

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Giulio Guidorizzi, Enea, lo straniero. Le origini di Roma

Einaudi, Torino 2020.

di Maria Donata Montemurri

«I Romani sapevano di discendere da un advena, uno che viene da fuori, accompagnato da fuggiaschi che avevano attraversato il mare rischiando mille volte di morire e scomparire nelle acque» (p. 4) narra nel “Prologo” Giulio Guidorizzi palesando una verità che, ancora oggi, in un tempo come quello odierno così anacronisticamente globalizzato e insieme impreparato ad accogliere lo straniero, rappresenta un nervo scoperto capace di dividere l’opinione politica e pubblica.

«Ora non abbiamo più niente, siamo profughi senza più una patria. Ma qualcosa ci è rimasto: i nostri Penati e la nostra memoria. Ripartiremo da lì» (p. 27): quella di Enea è la storia di un lungo viaggio attraverso il mare nostrum compiuto da chi, superstite, scappa dagli orrori di una terribile guerra, costretto a lasciare la propria casa con un manipolo di compagni animati dalla sola certezza di dover fuggire per poter sopravvivere; è la storia senza tempo e straordinariamente attuale, di chi spera di trovare la luce alla fine del viaggio e di dare concretezza alla speranza di una vita migliore.

Enea l’eroe, il principe troiano rispettoso del volere del Fato, degli dei, accoglie sulle sue spalle l’anziano padre Anchise, il passato, la memoria, per salvarlo dalla morte altrimenti certa: «Tu sei la nostra saggezza, la nostra famiglia. Sei mio padre. Insieme compiremo ancora tante imprese» (p. 21) e, così facendo, conduce in salvo il patrimonio di saggezza e tradizioni di cui è l’incarnazione; prende per mano il figlioletto Ascanio – la speranza di un futuro glorioso – e lascia Troia in fiamme per ubbidire al suo destino: fondare la gloriosa stirpe romana, centro del Mediterraneo e del mondo allora conosciuto.

C’è tutto questo nel saggio di Guidorizzi: la poesia, l’amore, la guerra, il fatum, le narrazioni del mito, resi, con indubbia maestria, da una riscrittura dei versi virgiliani operata sotto lo sguardo attento del classicista ma, al contempo, capace di regalare un ampio respiro narrativo che sottolinea la forza senza tempo del modello. Credo possa leggersi in questa direzione anche la scelta della doppia titolazione, latina e italiana, riservata a ciascuno dei sette capitoli, in cui non necessariamente la seconda è da considerarsi traduzione della prima, quanto piuttosto l’espressione della volontà di legare indissolubilmente il classico al moderno perché, come insegna Italo Calvino, «Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire».

L’autore riesce a raggiungere pienamente il fine a cui ogni patto narrativo, che voglia definirsi tale, dovrebbe tendere, ossia il totale coinvolgimento del lettore che, facilmente, può riconoscersi nell’inquietudine, nelle passioni, nell’errare continuo dell’eroe/uomo alla ricerca di un porto sicuro.

Non da ultimo questa sorta di saggio-romanzo – non sarebbe azzardato definirlo così, proprio per questa sua prerogativa di essere, contemporaneamente, scrittura saggistica come dimostra la dettagliata cura con cui Guidorizzi rende il racconto dei miti fondativi, e scrittura narrativa per lo stesso fluire del racconto, agile e appassionante – è adatto a un pubblico di lettori, per così dire, non ‘addetti ai lavori’: si pensi, per esempio, agli studenti che, per il corso di studi scelto, non leggono dai testi originali (ultimo baluardo dei licei a indirizzo tradizionale) ma che, ugualmente, possono fruire di tutta la straordinaria bellezza del racconto epico.

È possibile ritenere una costante del libro, ossia la capacità di narrare l’epica marginalizzando la presenza del divino, quale risposta alla precisa volontà dell’autore, di leggere i fatti sotto la lente della modernità? Difficile sostenere il contrario.

Enea, infatti, combatte non solo contro chi tenta di impedire il suo viaggio, ma sfida soprattutto se stesso, riconosce umanamente i suoi limiti e tenta faticosamente di migliorarli; innumerevoli dubbi e poche certezze albergano nel suo animo, lacerato tra il sentire con passione e il dovere a cui non può sottrarsi; è consapevole delle sue ansie e delle sue paure, come si legge, ad esempio, nel capitolo intitolato Manes. Il prato di asfodeli, in cui è messa a nudo la sua umanità: «Enea temeva che da un momento all’altro la Sibilla scomparisse e lo lasciasse solo, avvolto da un nulla senza suoni né forme» (p. 100).

Tutto questo rende il personaggio straordinariamente moderno nel momento in cui abbandona le vesti dell’eroe invincibile dell’epica greca per indossare quelli dell’uomo travolto dalle passioni ma, al tempo stesso, capace di agire: «Per un istante, Enea ebbe l’impulso di uscire dall’ombra e piombare su di loro […]» scrive animato Guidorizzi, «Ma non lo fece. A che sarebbe servito, infine? […] In quel momento qualcosa in lui cambiò per sempre. Era davvero così importante essere ricordato e cantato dai poeti e conquistare la gloria degli eroi battendosi in un duello senza speranza? […] Anche se Troia era finita, qualcosa di essa poteva ancora sopravvivere» (p. 18).

Enea, l’eroe che agisce in modo straordinariamente umano; lo straniero alla ricerca della terra promessa; il migrante in viaggio verso l’ignoto a cui è irriducibilmente legato dal destino; figlio, in viaggio nell’Oltretomba, dove approda spinto dal desiderio di incontrare suo padre per scoprire la sorte della sua stirpe; uomo, in viaggio dentro se stesso, per riscoprire e dare forza alla sola speranza di un futuro tutto da ridisegnare, ancorandosi alla solidità delle sue radici.

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