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Archive for the ‘interviste’ Category

Prossimità e diritti al tempo del Covid 19

intervista ad Augusto Ponzio a cura di Mary Sellani

Ripercorrendo la filosofia di un classico del Novecento, Emmanuel Levinas (Kaunas 1906-Parigi 1995), Augusto Ponzio, professore emerito di Filosofia e teoria dei linguaggi nell’Università di Bari, riflette sul senso di nozioni come prossimità e diritto nella società globale, dove tutto migra, compresi i virus. L’itinerario di studio di Ponzio iniziò da un’opera fondamentale di Levinas, Totalité et infini (1961), letta quando lavorava alla sua tesi di laurea in Filosofia, sul tema La relazione interpersonale, discussa nel 1966 a Bari con Giuseppe Semerari. Il suo ultimo libro, Con Emmanuel Levinas. Alterità e Identità, è uscito per Mimesis a ottobre 2019.

 

Con Emmanuel Levinas è il punto d’arrivo di un cammino che partendo da Levinas riporta a Levinas; un cammino che, però, non ha la forma di un cerchio, ma piuttosto di una spirale, giacché non si tratta di ripetizione ma di un ricominciamento sempre di nuovo, di una ri-scrittura; una specie, insomma, di eterno ritorno di una passione intellettuale sempre viva e riattualizzata da continue riflessioni intorno a questa importante figura della filosofia del Novecento, alla luce degli avvenimenti che si sono succeduti, fino all’attuale configurazione della globalizzazione. Una riflessione non interrotta, benché essa non abbia escluso l’ascolto di altre parole come quelle di Bachtin, Kierkegaard, Peirce, Marx, Blanchot, Bataille, Barthes, Kristeva, Rossi Landi, Schaff, Sebeok, oltre che di Giuseppe Semerari, il suo maestro di Filosofia teoretica. Leggi il seguito di questo post »

di Marc Tibaldi

Innanzitutto poeta, ma anche sociologa, musicista, editrice, Rita Pacilio articola questa identità molteplice con grande sensibilità, valorizzando la propria visione trasversale e concatenante. Le sue poesie e i suoi libri – in particolare Gli imperfetti sono gente bizzarra – sono stati tradotti in francese, spagnolo, arabo, rumeno, greco e hanno ricevuto importanti riconoscimenti in Italia e all’estero.

Quali sono stati i primi tuoi riferimenti di scrittura? Riesci a ricostruire a posteriori una genealogia?

Grazie a una bravissima insegnante, fin dalle elementari, mi sono appassionata ad Aldo Palazzeschi, e attraverso la sua poesia mi sono resa conto che la parola può essere arricchita di tanto senso emotivo, che è l’espressione più bella della musicalità insita nella natura e nel nostro corpo. Gli amori di scrittura degli anni successivi sono stati Pavese, Gatto, Cardarelli, e poi, fondamentale, è stato l’incontro con la sensibilità estrema di Dino Campana. Non riesco a trovare una genealogia tra la mia ricerca attuale e le letture di formazione. Attraverso lo studio della storia della letteratura mi sono lasciata rapire da scrittori e poeti molto distanti, da Shakespeare ad Artaud. Sento che dietro di me c’è un insieme molto diverso di riferimenti. Per esempio, penso che Pascal pur non essendo ricordato come poeta abbia fatto vera poesia, le lettere alla sorella Jacqueline, hanno una forte temperatura poetica, così pure le lettere di Grazia Deledda a Luigi Albertini, la stessa poesia che ritrovo nelle lettere di Kafka a Milena, dove ogni frase è visionaria. La poesia, per me, non è esclusivamente il verso, la metrica, e proprio da queste riflessioni ho concepito L’amore casomai, dalla possibilità di vedere la poesia nella costruzione sintattica della prosa, tenendo anche presente la ricerca di Caproni, Sanguinetti e altri che hanno spostato l’attenzione sulla prosa poetica. Leggi il seguito di questo post »

Donne d’Armenia: ricordare il genocidio a Bari


due interviste di Maria Scoccimarro

 

In occasione della Giornata della memoria del Genocidio Armeno, celebrata il 24 aprile, pubblichiamo due interviste rilasciate da altrettante esponenti della comunità armena di Bari. Come si sa, il capoluogo pugliese, per iniziativa del poeta Hrand Nazariantz, fu luogo di accoglienza di profughi, molti dei quali si stabilirono in città fondando il villaggio Nor Arax (‘nuovo Ararat’), del quale sopravvivono ancora alcune vestigia. Maria Scoccimarro, laureatasi in Sociologia della letteratura a Bari, con una tesi proprio su L’Oriente e l’Occidente nelle opere di Hrand Nazariantz, ha incontrato Nicoletta Arusiak Timurian, destinataria di alcune poesie e lettere di Nazariantz, e Kaianik Adagian, figlia di Sarkis, l’unico armeno che vive ancora oggi nel villaggio. Dalle due testimonianze si ricava un interessante spaccato della vita sociale ed economica degli armeni di Bari, nonché un ritratto anche privato del poeta che ne fu il nume tutelare.

 

Nicoletta Arusiak Timurian De Tommasi: fascino e solitudine del poeta

Nicoletta, come ha conosciuto Hrand Nazariantz?

Ho conosciuto Hrand al villaggio armeno Nor Arax di Bari: molto spesso mi recavo lì con le mie cugine, per far visita a mia nonna e ai miei zii, soprattutto la domenica, quando tutta la famiglia si riuniva.

Com’era formato il villaggio armeno e qual è stata la reazione dei baresi alla sua creazione?

Nel villaggio ogni famiglia aveva una baracca, ma dopo un po’ molti sono andati via soprattutto verso la Francia. In realtà il villaggio armeno non era molto conosciuto, anzi quasi nessuno ci conosceva. È brutto da dire ma, di fronte a tanta diffidenza, quasi mi vergognavo di essere armena. Soltanto da una quindicina di anni il nostro popolo è venuto alla ribalta, grazie a incontri, conferenze, film sull’argomento.

Che ruolo ha avuto Nazariantz per gli armeni?

Era il nostro patriarca, una figura importante. Eravamo tutti affascinati dalla sua personalità, anche i bambini gli erano affezionati per i suoi comportamenti teneri e dolci. Era uomo di grande cultura, dava molte lezioni private di francese e inglese e anche mio fratello andava spesso da lui. Era un artista a tutto tondo, dal cuore nobile, il nostro punto di riferimento; era, anzi, egli stesso la nostra Armenia, per la quale mostrava sempre una grande nostalgia. Leggi il seguito di questo post »

Il ritorno alla fisicità e l’illusione della leggerezza.
Intervista a Tommaso Pincio

 

 

a cura di Anna Acquaviva

Dodici e-mail, un aereo, due bus, una valigia azzurra, un registratore, un taccuino, un foglio con delle domande; un bar, un caffè, una cioccolata calda, una ragazza, uno scrittore e poi Roma, la città eterna. La mia intervista a Tommaso Pincio è il risultato di una prima corrispondenza epistolare nata via e-mail con lo scrittore, il quale ha accettato con estrema gentilezza di incontrarmi per questa chiacchierata, svoltasi a Roma il 28 dicembre 2016, presso la sala da tè di un bar ‘palermitano’ della capitale. Le domande formulate nascono dal desiderio di soddisfare le mie curiosità sui legami che la vita e le opere di Pincio intrecciano con il mondo reale e con quello virtuale, approfondendo aspetti anche distanti dall’ambito letterario. Mi accorgo che con le sue risposte l’autore ha deciso di regalarmi qualcosa di sé, il suo personalissimo punto di vista sulla società attuale.

È noto al pubblico dei lettori che lei utilizza uno pseudonimo per firmare le sue opere. Da cosa nasce questa esigenza? Perché ha scelto di chiamarsi Tommaso Pincio?

C’è una motivazione che per anni avevo rimosso. La scelta della pseudonimia è nata dalla difficoltà di vivere nel mondo in cui allora ero inserito, quello dell’arte; darmi un nuovo nome è stato per me un modo per ridarmi un’altra vita. Le sembrerà un po’ assurdo, ma il mondo dell’arte è molto piccolo e ristretto. Vivevo come un problema la mia posizione nel mondo dell’arte, non sopportavo più certe dinamiche in cui pure mi ero pienamente inserito: ero il direttore di una galleria molto importante a Roma, ma questo lavoro era un ripiego rispetto alle mie ambizioni da ragazzo, poiché la mia massima aspirazione, all’epoca, era quella di fare il pittore. Lavorare in quell’ambiente era il ricordo costante del mio fallimento e fonte di frustrazione continua. Quando ho iniziato a scrivere romanzi, avevo in realtà alle spalle già testi di critica artistica che sono confluiti nel libro Scrissi d’Arte, ma sentivo l’esigenza di scrollarmi di dosso questo mio passato, tutto ciò che esso comportava, e per questo, per ridarmi una nuova identità da scrittore ho adottato uno pseudonimo. Tommaso Pincio nasce dalla volontà, non so quanto consapevole e conscia, di darmi il nome di uno dei personaggi del mio primo romanzo, M., lo stencil Tommaso Pincio [col termine stencil si indica la personalità di un individuo abituato a pensare in maniera piatta, che non prevede imprevisti; n. d. r]. Scelsi questo nome perché al suo interno è contenuto un riferimento topografico importante per me, legato alla città di Roma. Il Pincio è un luogo molto legato alla mia infanzia, che ancora oggi frequento con piacere. Il nome Tommaso, invece, nasce dall’affinità che sento con san Tommaso. Se non ci fosse stato questo riferimento così esplicito a Roma non so se oggi mi chiamerei Pincio, forse no. Anche se molti collegano il mio pseudonimo al nome di Thomas Pynchon, la scelta non ha nulla a che vedere con questo scrittore americano, che è per me un autore importante, ma molto distante dal mio modo di scrivere e lontano dalla scelta dello pseudonimo. Leggi il seguito di questo post »

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«Il latte di Auschwitz»: Edith Bruck e il ruolo del sopravvissuto

intervista di Diletta Bonasia

Dal 19 gennaio 2017 è nelle librerie l’ultimo libro di Edith Bruck, La rondine sul termosifone (La nave di Teseo), struggente e bellissimo racconto della malattia vissuta al fianco del marito, Nelo Risi (su cui si veda, in questo stesso blog, il commosso ricordo Di certe cose che dette da Nelo Risi suonavano molto meglio. È morto l’ultimo grande poeta del Novecento, pubblicato il 19 settembre 2015). In occasione della Giornata della Memoria della Shoah, di cui la scrittrice italo-ungherese è una delle espressioni italiane più alte e toccanti, pubblichiamo un’intervista inedita che, nel marzo del 2016, ella ha rilasciato nella sua casa romana a Diletta Bonasia, che alla Bruck ha dedicato la sua tesi di laurea in Sociologia della letteratura, conseguita presso l’Università di Bari.

 

Vorrei partire da Lei come scrittrice: che rapporto ha con i suoi libri e con la scrittura?

Io non rileggo mai i miei libri, dal momento in cui li hanno pubblicati. Non li riapro nemmeno, perché la maggior parte dei libri mi toccano molto da vicino. Non riesco a rileggerli perché mi ricordano quello che ho vissuto e mi fanno male. Per quanto riguarda il mio rapporto con la scrittura, diciamo che per me la lingua italiana è una specie di schermo, di maschera, perché nella mia lingua materna sicuramente non avrei scritto quello che ho scritto, è una lingua che sento molto più profondamente rispetto all’italiano. Una parola in ungherese significa, per me, moltissime cose: se io dico in italiano ‘pane’ per me significa soltanto ‘il pane fatto dal fornaio’, mentre se scrivo in ungherese la stessa parola, essa mi rievoca mia madre che infornava cinque-sei pani alla settimana, rivedo la sua figura, il suo viso, il rosso del fuoco del forno a legna. È un dolore profondo. Già attraverso la parola in sé riesco a rivedere mia madre e mi tocca molto più da vicino, è molto più doloroso. Mentre scrivere in italiano è per me quasi un’autodifesa da quello che scrivo. La lingua italiana è stata anche la lingua che mi ha dato un’identità, e allo stesso tempo per me è più facile, attraverso l’italiano, dire qualunque cosa, anche una parolaccia. Se scrivessi in ungherese non potrei scriverla perché mi vergognerei, mentre in italiano per me è più facile scrivere qualsiasi parola. È una fortuna che io possa scrivere in una lingua non mia. Leggi il seguito di questo post »

da incroci 23 – sezione Recensioni

Silvio Ramat

IL LUNGO AMORE DEL SECOLO BREVE. SAGGI SULLA POESIA NOVECENTESCA

Franco Cesati, Firenze 2010.

Recensione e intervista a cura di Giuseppe Lupo

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La sera del 24 gennaio 2012 è morto in un incidente stradale il più noto regista greco, Theodoros Angelopoulos, nato ad Atene nel 1935 e formatosi cinematograficamente a Parigi, dove era stato esiliato nel 1967, durante la dittatura dei Colonnelli, a causa della sua militanza giornalistica a sinistra. La sua lezione artistica merita di essere ricordata, ora che la crisi culturale europea ch’egli denunciava è stata resa forse definitiva dalla grande contrazione economica che più di ogni altro Paese ha fagocitato la sua Grecia.

Per questo incroci ha voluto dedicargli un approfondimento, articolato in due tempi: un intervento del critico cinematografico Vito Attolini, che abbiamo già pubblicato, e una intervista rilasciata tempo fa a Raffale Nigro, che invece pubblichiamo oggi.
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Pierluca Cetera, “Venerdì”, olio su tavola, 120 x 180, 2006

 

da incroci 25 –

 

 Ad illustrare questo numero 25 della nostra rivista abbiamo chiamato Pierluca Cetera. Nato a Taranto nel 1969, Cetera vive e opera a Gioia del Colle (Ba), dove insegna Storia dell’Arte. Con la mostra unheimlich del 1998, avvia una intensa attività espositiva che lo ha segnalato all’attenzione della critica più avveduta. Ne ascoltiamo il parere sui temi che attraversano questo fascicolo.

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«incroci» – semestrale di letteratura e altre scritture

direzione: Lino Angiuli •  Daniele Maria Pegorari • Raffaele Nigro

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