Mario Rondi, Avventure di un seduttore mancato
Posted 19/05/2022
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Mario Rondi, Avventure di un seduttore mancato
Genesi Editrice, Torino, 2021
di Carmine Tedeschi
Il singolare del titolo (“un seduttore”) è buona spia della centripetazione tipologica delle gesta, o meglio dei “conati” seduttorii messi in atto dai protagonisti di questi ventisei racconti. Ventisei personaggi comprimibili in un solo tipo: quello dell’uomo senza qualità. A proposito del quale è inevitabile correre col pensiero, non solo a Musil, ma a gran parte della narrativa primo-novecentesca, che segnò una svolta irreversibile nella letteratura europea.
L’accostamento però finisce qui, poiché lo spirito con cui l’Autore costruisce i racconti non ha nulla a che fare col disagio verso la modernità o verso la società borghese, diffuso nei molti personaggi di quella narrativa (vedi Kafka); né con l’interesse per l’introspezione, dovuta all’interesse per le teorie freudiane (neppure nella versione autoironica di Svevo); né con la tragica frantumazione dell’Io in Pirandello.
Qui la chiave tonale dominante è il grottesco. E per ottenere l’effetto grottesco, si sa, bisogna amplificare i tratti distintivi del carattere, dell’atteggiamento, del comportamento, fino alla deformazione mattoide, fino all’inverosimile più bizzarro, sconfinando nel surreale più impensabile.
È quanto succede a tutti questi seduttori mancati: goffi fino alla paralisi verbale e motoria, infelici per il totale ripiegamento su di sé, annegati in una tale solitudine da cercare compagnia e sintonia nel mondo animale.
Chi con un pretesto chi con un altro, ma tutti per una invincibile e profonda disistima dell’Io, si ritraggono all’ultimo momento dinanzi ad una conquista a volte dubbia a volte persino certa, dopo averla desiderata e vagheggiata in immagini femminili di straripante erotismo. Alla carnalità di quelle immagini fantasticate, alimentate in qualche caso da vicinanza e sessualità reali, succede sempre per contrasto l’esito fallimentare, che devia il desiderio verso oggetti sfumati o minimali, diventati sostituti maniacali dell’oggetto desiderato.
A percepire in modo tangibile la solitudine di questi personaggi, valga una osservazione sullo stile narrativo: non vi è in tutto il libro un solo dialogo. E con chi potrebbero dialogare personaggi del genere? Solo con se stessi, con quell’Io scombinato a cui si riducono per incapacità di vedere l’Altro, o meglio l’Altra nelle vesti di donna reale, e non di oggetto erotico esaltato, ridotto com’è nelle loro fantasie a una somma indistinta di natiche e tette. In un racconto il protagonista si porta a spasso un manichino; in un altro amoreggia con uno struzzo, e via folleggiando.
«Qui siamo di fronte a una geremiade di anonimi personaggi maschili, quasi tutti già un po’ avanti negli anni, con un iter erotico alle spalle da Miles gloriosus, cioè un poco fanfarone, più illusorio che non reale», afferma giustamente Sandro Gros-Pietro nella Prefazione.
Sarebbero tutte tragedie, se non fossero scritte tutte come una sola commedia o una farsa. E fino ad un certo punto la scrittura regge con efficacia il compito di ironizzare su una situazione penosa fino al comico. Ma se la situazione si ripete per ventisei volte, anche la meglio scrittura si stanca un po’.
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