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Federico Rampini/ Alla mia sinistra

Posted on: 27/11/2012

da incroci 25 – recensioni

Federico Rampini

ALLA MIA SINISTRA. LETTERA

APERTA A TUTTI QUELLI CHE

VOGLIONO SOGNARE INSIEME A ME

A. Mondadori, Milano 2011.

 di Daniele Maria Pegorari

Per Rampini il giornalismo è il metodo nobile per la conoscenza del mondo, col quale dar seguito alla sua prestigiosa formazione scolastica (liceo europeo di Bruxelles e laurea alla Bocconi), unita alla giovanile militanza nel Pci. Le analisi della realtà economica che Rampini è in grado di fornirci sono di una precisione e affidabilità che fanno venir voglia di prendere la matita e di glossare e studiare i suoi saggi come se si dovesse poi sostenere un esame. Ma quest’ammirazione non può impedire di segnalare la delusione con cui, immaginando di trovarmi dinanzi a una lettera aperta alla Sinistra affinché ritrovi i segni e i ‘sogni’ della propria visione alternativa, scopro invece che il libro è una giustapposizione di sei reportage dal mondo della crisi globale. Il racconto dell’attualità c’è tutto, d’accordo, ma dov’è la visione progettuale?

Nel panorama sconsolato di un’editoria dominata dagli istant book che riducono i leader di casa nostra a narcisistiche funzioni dello star system, ci si poteva augurare che un esperto mondiale, non vincolato dalle astuzie elettorali, collaborasse a rifondare il lessico della Sinistra, a redigere un nuovo manifesto che sostituisca le care immagini bisognose di collocamento a riposo per superamento di ogni limite di vecchiaia, con nuove visioni altrettanto in grado di indurre a sognare. Ma cosa vorrebbe farci sognare Federico Rampini, se, per esempio, dopo averci spiegato che dobbiamo smetterla di ritenere l’America un Paese senza socialismo e che Obama di questa sottovalutata tradizione culturale è l’esponente più credibile, poi ci dimostra che la sua amministrazione sta fallendo a causa non di condizioni oggettive, ma dell’indietreggiamento spaventato del giovane presidente americano rispetto ai valori egualitari che ne avevano nutrito la campagna elettorale?

Non c’è quasi pagina della storia degli ultimi cinquant’anni che Rampini non metta alla prova della sua penna, che scolpisce allineando dati, percentuali e dispositivi legislativi dell’Ovest e dell’Est che ci appaiono illuminanti per capire come siamo potuti arrivare a questa «Grande Contrazione». Nel cap. i si spiega come, alla fine degli anni Settanta, i richiami all’«austerità» dei due leader morali della Sinistra di Rampini, Enrico Berlinguer e Jimmy Carter (nientedimeno), siano stati insopportabili per la loro stessa base elettorale e abbiano aperto la strada dapprima all’«edonismo reaganiano» e poi al «credito facile per alimentare comunque il consumismo di massa», che poi ha fatto esplodere la bolla a partire dal 2008.

Nel cap. ii si mettono a confronto le due grandi illusioni perdute: quella dell’America di Clinton, della new e green economy, cioè della liberaldemocrazia come «utopia concreta» in cui il capitalismo promette di reinvestire «i suoi profitti con le donazioni alle università, alla ricerca medica, ai parchi nazionali, alle tecnologie verdi» e maschera, dietro la promessa di rimpiazzare l’occupazione operaia con una nuova altamente qualificata, la triste realtà della scomparsa del lavoro; e l’altra illusione, quella della potente economia cinese che sta per superare i profitti di quella americana, ma con costi civili indegni di chiunque si richiami alla storia del socialismo e del comunismo. Nel cap. iii uno spiraglio positivo, l’elogio del Brasile di Lula e Dilma Roussef, rimasto l’unico Paese, accanto all’impero di Cindia, a svilupparsi in questi anni di recessione. Eppure pare anche al nostro autore un modello poco esportabile, se non riesce a suggerire niente di meglio ai «neolaureati italiani» che considerare la possibilità dell’«emigrazione in Brasile, come all’epoca dei nostri nonni o bisnonni». Il Brasile, dunque, può raccontare la bella favola di un Paese alla perenne ricerca della propria emancipazione, ma poco può insegnare a un Paese come il nostro, che si è creduto ricco e, invece, ogni settimana si vede il debito declassato da parte di agenzie di rating che devono aver preso lezioni di sadismo direttamente dal Marchese.

E veniamo così al cuore del libro, quel cap. iv in cui si esaminano i mali dell’Italia, il suo aver appaltato a due “commissari esterni”, l’Europa e il mercato, l’orientamento della democrazia nazionale, finendo con l’offrire «come vittime sacrificali pesanti tagli alle pensioni, alla sanità, ai fondi per il trasporto pubblico o per la ricerca», mentre esalta, il nostro autore, il famigerato Modell Deutschland che, in cambio della severità nei confronti del dissenso politico e della deriva produttivistica della socialdemocrazia, ha ottenuto dal 1977 a oggi che il capitalismo tedesco investisse «nella ricerca, nell’innovazione, nella qualità, nell’ambiente», riuscendo a resistere come nessun altro Paese occidentale alla recessione in atto, addirittura tenendo botta alla «via cinese»; ma dimentica di dedurne che, se la Germania ha conseguito questi risultati persino dopo essersi assunta il carico della parte orientale unificata, il suo conto è stato saldato non tanto dalla ‘ragionevolezza’ del suo sindacato, quanto da quella sudditanza monetaristica e politica degli Stati membri dell’Unione, Italia in testa, che poche pagine prima Rampini aveva deprecato.

Dal cap. v c’è da imparare tutta la storia economica e politica dell’America, dalla fine dell’Ottocento, «con i Robber Barons (Baroni Ladri) che spadroneggiavano impunemente», al «decennio della “vita a credito”, del boom immobiliare finanziato coi mutui subprime, della nazione in declino che vive al di sopra dei propri mezzi», infine lasciando il campo al movimento di estrema destra del Tea Party, cresciuto nel 2009 prima contro i moderati e poi contro Obama, condensando le tre forze peggiori che possono far morire anche la più solida democrazia: «la plutocrazia, la tecnocrazia e il populismo». E si scopre l’intelligenza dello storico dell’economia che ricorda come il vero punto buio del Novecento occidentale non sia stato il Wall Street Crash del ’29, ma l’abbandono del New Deal da parte di F.D. Roosvelt nel ’37, errore che prefigura con settant’anni di anticipo il tradimento dell’Audacia della speranza da parte del suo teorico Obama che, evidentemente, o non ha studiato la storia, oppure è costretto a soggiacere alle logiche della politica capitalistica secondo paradigmi che devono ripetersi di necessità. Il lettore aspetta con ansia il capitolo finale, quello nel quale il giornalista ha promesso di raccogliere «delle soluzioni di sinistra, alternative a un capitalismo malato»; così mi rimbocco le palpebre e trovo che la prima soluzione (quindi, devo arguire, quella che fa da condicio sine qua non) non è, come mi aspettavo, una ricetta economica per la salvaguardia del lavoro come creazione di ricchezza da spendere nei consumi e nel fisco (dal che dipenderebbe la ripresa produttiva e la redistribuzione egualitaria delle risorse), bensì una condanna dell’«idea secondo cui la scuola è un’istituzione democratica fatta per pareggiare le opportunità, che la missione dell’insegnante include uno sforzo di aiuto ai più deboli»; e a seguire si suggerisce di estendere su scala planetaria il mercato settimanale degli Amish del rione newyorkese di Bushwick, di tornare tutti al baratto, come già fanno autorevolmente le signore del National Swap Day, di noleggiare auto e aspirapolvere, visto che non ci servono tutti i giorni, di prestare casa a uno sconosciuto, anziché costringerlo a pagarsi un albergo, fino alla perla di saggezza della disoccupazione come «opportunità: poiché il mercato del lavoro è avaro di assunzioni», i disoccupati possono mettere «a disposizione il proprio tempo e il proprio talento in cambio di servizi e prestazioni di chi vive la stessa condizione»…

Come il lettore protagonista inconsapevole del calviniano Se una notte d’inverno un viaggiatore, anch’io resto interdetto e mi convinco che il libro promesso dall’autore e da me scelto continui da qualche altra parte, che manchino i sedicesimi giusti e al loro posto sia stato infilato un cavallo di Troia. Precisa nella sua pars destruens nei confronti tanto della finanza creativa quanto delle insipienze della sinistra mondiale, la riflessione di Rampini rimane pallida nella sua preannunciata pars costruens, o almeno somnians. Terribile astuzia del colosso conservatore che ha editato questa lettera, sapendo che avrebbe avuto il risultato di stroncare sul nascere ogni sogno di trasformare l’economia di mercato.

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