Il peso delle parole
Posted 08/06/2013
on:- In: attualità | riflessioni
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un intervento di Carmine Tedeschi
In una recente intervista su la Repubblica condotta da Antonio Gnoli, Tullio De Mauro a domanda risponde che tra “rabbiosi” e “incazzati” non c’è alcuna sostanziale differenza semantica, ma il secondo termine esprime «un cambio di stile e di costume. È l’Italia bassa e privata che sta prendendo il sopravvento».
Si può misurare quanto vale una parola sul piano dello stile e del costume? Dire che le parole vivono e muoiono, mutano i loro significati a seconda dei contesti, delle situazioni, delle intenzioni di chi le usa e delle attese di chi le ascolta, è come scoprire l’acqua calda. Con un giudizio assai sommario (come impone l’ansiogena pressa dei correnti costumi comunicativi) potremmo dire che le parole “seguono le mode”. Non ci vuole un linguista di fama per affermarlo: lo percepiscono, a parte gli analfabeti, tutti quelli che abbiano un minimo d’intelletto capace di riflettere su come parliamo.
Ma del perché una parola cambi valenza semantica e frequenza d’uso col mutare dello sfondo storico, la riflessione dei professionisti del linguaggio (a parte, appunto, De Mauro e qualche altro) sembra preoccuparsi assai meno. Non parliamo poi della gente comune. E non per il fatto che sia difficile spiegare il fenomeno, al contrario: perché esso appare scontato, deciso dallo stesso fatum che inesorabilmente guida la Storia e contro cui nessuno può nulla.
Prendiamo parole come “partito”, “impegno politico”. Provate a tirarle nel mezzo di una discussione fra amici, in casa, al bar, e vedrete che succede: lo sguardo più benevolo sarà di commiserazione. Prendiamo termini come “uguaglianza”, “solidarietà”, “equità distributiva”. Letteralmente spariti dallo sterminato panorama mediatico e dal linguaggio elettorale, ingoiati dalla smania di cancellare un’epoca considerata infausta. E “welfare”? Eppure sono parole o concetti che si trovano nella Costituzione. È passata di moda anche quella? Eppure quei termini portano a bordo valori che non dovrebbero cambiare nel tempo, e che la condivisione civica assimilata fra i banchi di scuola dovrebbe rendere costanti. Addirittura sacri. Vogliamo buttarli via?
C’è chi lo pensa. Ma la cosa grave è che anche chi non lo pensa continua a farne a meno, a mutilare il linguaggio (dunque i costumi, l’orientamento politico dominante) e a seguire la moda corrente. Che purtroppo non è solo moda: è un vero e proprio torrente limaccioso che ogni cosa bella e brutta travolge nel fango. A cui ci si abbandona arrendevoli, incoscienti.
E prendiamo, infine, la parola “libertà”, assai frequentata dal linguaggio politico di qualunque colore, da quando sono possibili i vari colori politici. In un lontano e fortunato programma satirico della Dandini, un gruppo di personaggi dai comportamenti scombinati ed egotici dava vita a brevi sketch esilaranti, che si concludevano sempre con una inequivocabile definizione di “libertà”: «facciamo il cazzo che ci pare!» Una maniera colorita e incisiva per far riflettere sulle implicazioni peggiori di una parola sublime, che rinvia subito ad un concetto da tutti condiviso.
Sta seguendo la stessa sorte anche “democrazia”? Se è così, perché meravigliarsi che l’Italia “bassa e privata” abbia preso il sopravvento?
Non rimane allora che una soluzione: gli interessati a un uso delle parole corretto, o perlomeno consapevole, formino una specie di listino di Borsa, o un’Agenzia di Rating linguistica, dove vengano indicati con chiarezza non solo i significati giusti delle parole consumate dai politici, non solo il peso specifico della loro ricaduta sulla audience, ma anche i valori di “stile” e di “costume” loro connessi. E che vengano tolti i punti senza misericordia a coloro che sgarrano. E che i politici siano obbligati a consultarla almeno una volta al giorno, come gli economisti consultano le agenzie loro. O come i preti consultano il breviario.
1 | Daniele Maria Pegorari
15/06/2013 a 14:45
Caro Carmine, non posso che condividere l’amara riflessione sulla violenza cui è sottoposto il linguaggio politico (cioè valoriale) contemporaneo. Alla tua fantasiosa Agenzia di Rating linguistica accompagnerei un’impresa collettiva: la redazione di un nuovo vocabolario o almeno un lemmario su cui rifondare una civiltà del confronto e, magari, una vera trasformazione di questo nostro sciagurato Paese. Potrebbe promuoverlo “incroci” un lavoro del genere: ogni redattore, ogni collaboratore, ogni abbonato, ma anche ogni lettore di questo blog potrebbe proporsi come autore di una breve voce di questo lessico e, purché coerenti con un disegno generale, queste voci potrebbero trovare posto in una pubblicazione vera e propria. Pensiamoci…
Carmine
16/06/2013 a 17:54
Già, pensiamoci!