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Da Conrad al Teatro Abeliano: “I duellanti” con Alessio Boni e Marcello Prayer

Posted on: 13/05/2017

Da Conrad al Teatro Abeliano:
“I duellanti” con Alessio Boni e Marcello Prayer

di Irene Gianeselli

L’articolo che segue è il vincitore di una sezione (“Recensione a uno spettacolo di ampio rilievo artistico”) del Premio di Critica e Storia del Teatro under 35 “Nicola Saponaro”, intitolato alla memoria del grande drammaturgo, nato l’8 dicembre 1935 e morto il 24 gennaio 2015. Il premio, fortemente voluto dal cutamc (Centro interuniversitario per il Teatro, le Arti visive, la Musica e il Cinema) dell’Università di Bari, dall’Associazione “Attraverso lo spettacolo” e dalla Biblioteca del consiglio regionale della Puglia “Teca del Mediterraneo” (che custodisce il prezioso Archivio privato donato da Saponaro), ha l’obiettivo di valorizzare gli studi di critica teatrale e di storia dello spettacolo, con particolare (ma non esclusivo) riferimento all’ambito regionale. La giuria, presieduta dalla direttrice del cutamc, prof.ssa Grazia Distaso, era poi composta Lea Durante, Francesco S. Minervini, Daniele Maria Pegorari e Maria Grazia Porcelli (per l’Università di Bari), da Maria A. Abenante e Daniela Daloiso (per “Teca del Mediterraneo”), da Waldemaro Morgese, Egidio Pani e Franco Perrelli (per “Attraverso lo spettacolo”) e da Mary Sellani (compagna del drammaturgo). «incroci» si associa alla nobile e doverosa commemorazione dell’autore (indimenticabile amico di tante nostre iniziative), accogliendo questa recensione sul blog e pubblicando altresì, in uno dei prossimi volumi, un contributo di Marica Mancini, risultato vincitore nella sezione “Saggio inedito sulla storia del teatro”.

La stoccata deve essere data. Ecco il télos della tensione che Conrad rende materico nel racconto The Duel, dato alle stampe nel 1908. Lo stile tagliente e asciutto dello scrittore penetra la Storia e anima i due ussari della Grande Armèe di Napoleone, Armand D’Hubert e Gabriel Feraud. Due vite che si compenetrano in un unicum sublimato nel racconto stesso, nell’affabulazione della carne. Una tragedia che comincia ma non finisce, e si proietta in un eterno presente che Alessio Boni, Marcello Prayer, Roberto Aldorasi (con Francesco Niccolini che ha anche tradotto e adattato il racconto), richiamano nell’impasto drammaturgico intimamente coerente de I duellanti, andato in scena dal 31 marzo al 3 aprile 2016 al Teatro Abeliano di Bari.

Si apre il sipario, l’altrove è svelato. Un medico (Marcello Prayer) sta disinfettando la ferita di un soldato (Alessio Boni). I due attori costruiscono in questa scena un prologo indiretto: la luce calda della lampada sul capo del paziente evoca l’intensità del rito e le mani esperte del medico ricuciono i lembi della narrazione.

I due uomini, in questo esordio lacerante perché immediato, sono interpreti della loro ‘essenza’ di attori mentre anticipano la vicenda e permettono allo spettatore di partecipare all’azione. L’accurata regia di Boni e Aldorasi pone in rilievo l’esigenza di dialogo tra chi osserva e chi agisce.

Per rispondere alla necessità di dare al teatro una tensione etico-politica, la drammaturgia dello spettacolo assume, così, una struttura circolare, affinché siano gli attori a dare corpo e sangue ai personaggi, a disvelare e a celare il segreto dell’altrove. In un gesto rapido Boni e Prayer modificano le intenzioni e si cambiano d’abito, pronti a muoversi adesso come Armand D’Hubert e Gabriel Feraud nella scenografia di Massimo Troncanetti, geometrica e mobile, capace di sfruttare il palco con uno sfondamento prospettico orizzontale.

La vicenda è un pretesto per costruire un momento di teatro che si sviluppa su diversi piani concettuali. I due ussari sono legati visceralmente dall’ossessione di sfidarsi. In vent’anni si sono scontrati in ben diciassette duelli all’ultimo sangue e hanno sempre onorato le regole della cavalleria. Non è mai esplicita la ragione per cui i due si sfidano, ma è evidente l’alto valore simbolico dell’atto. In questo intervallo che la regia fa scorrere con il ritmo incalzante e sincopato proprio dell’inseguimento, i due uomini si guardano invecchiare, si studiano, s’invidiano professionalmente e reciprocamente si temono, tremendamente attratti dalle inconciliabili posizioni ideologiche che rappresentano: l’uomo del Nord è un conservatore, l’uomo del Sud è un ribelle.

Alessio Boni, occhi duri, mantiene una postura fiera, pronuncia le proprie battute con una forza vibrante, rivelando con la mimica del viso la macerazione interiore del suo D’Hubert. Marcello Prayer, sguardo luminoso, è, per contrasto, un Feraud nervoso, scattante, che contiene la propria ribellione nel tronco e la fa esplodere senza esitazione con una ferocia mai volgare, nemmeno quando in una delle scene centrali, offeso, lancia un’invettiva contro l’avversario, affidandosi alla generosa pienezza della lingua barese, lingua che l’attore pugliese ben padroneggia. In questa scena pare proprio che sia la terra rossa degli ulivi secolari a parlare dai piedi fino alla pancia, alla gola e al palato di Prayer. Non c’è il rischio di sentire le parole rimbalzare, l’eleganza dell’interprete dà piena dignità alla lingua e alla profonda significanza del proprio discorso, che è rabbia e implode e ferisce per primo se stesso mentre colpisce D’Hubert. L’estremo equilibrio che i due interpreti raggiungono è perfetto, specie nel concertato a due, innesto drammaturgico forte, attraverso il quale si racconta il gelo della Campagna di Russia e della disfatta.

Ottima la prova di Francesco Meoni che si destreggia interpretando cinque ruoli (lo zio di Adèle, promessa sposa di D’Hubert, il colonnello Marchand, il corrotto Fouché, uno dei soldati e un giardiniere) e quella della violoncellista Federica Vecchio che suona dal vivo le musiche oniriche di Luca D’Alberto, il cui ostinato armonico rende il senso tragico della competizione e della ricerca dei due protagonisti. Le luci di Giuseppe Filipponio concorrono fino all’ultimo duello a creare un’atmosfera di sospensione. Nella nebbia spettrale gli squarci di luce bianca illuminano i volti dei due ussari e rimandano ancora una volta all’immagine di un taglio nella fisica ieraticità del teatro che, come il ‘taglio purpureo del sipario’, apre a orizzonti di conoscenza e linee d’ombra, verso cui l’umanità tende ostinatamente, non sempre capace di attraversare consapevolmente il tempo e lo spazio.

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