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Vito Teti, La restanza

Posted on: 10/09/2022

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Vito Teti, La restanza

Einaudi, Torino 2022

di Sergio D’Amaro

Tutto si coniuga sui verbi onnicomprensivi restare/partire. Dentro ci sono molte cose e molti riferimenti che ormai sembrano appartenere a tempi antidiluviani: paese, patria, esilio, lentezza, nostalgia, ad esempio, e tutto ciò che non si fa più con calma, attenzione, dedizione, sacrificio, indulgenza, affetto. Non è la trama di un nuovo vangelo o il ritorno reazionario ad un passato anche più difficile di oggi, ma è l’invito del libro di Vito Teti, La restanza, or ora congedato da Einaudi (pp. 168, € 13). Il termine ‘’restanza’’ è un neologismo probabilmente esemplato su partenza (o lontananza), ma vuole sottolineare più che la condizione di rimanere in un luogo, la dedizione a ciò che resta di un luogo: cioè la sua cura, la sua riscoperta e valorizzazione. È questo anche l’argomento, in fondo, dall’autore già affrontato in suoi precedenti lavori come il più esplicito Quel che resta di qualche anno prima.

     Per chi come lui fa l’antropologo in giro per l’Italia, evidentemente si è fatta più stringente l’esigenza di un ritorno al paese, ai paesi, non solo in termini geografici ma crediamo anche in quelli più latamente umani o addirittura metafisici. Tornare non solo come voleva Pavese (memorabile la sua frase incastonata nella sua La luna e i falò: ‘’Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via’’), ma ricostruire il terreno fertile della memoria assediata dalla pressione di un mondo occupato dalla storia, dalla tecnologia, dall’efficientismo produttivistico. Il viaggio di ritorno al paese è allora un viaggio psicologico, uno sforzo di ricostituzione di tessuti vitali trasformati in rovine o macerie, ormai diventate ingombranti per l’occhio asettico degli spazi moderni.

      Un’operazione, a ben intendere, di sana nostalgia attiva, di ‘’nostalgia dell’altrove’’ che si è messa in viaggio verso un mondo rinnovato e verso un paese da reinventare secondo una prospettiva mobile, dinamica. È la nostalgia del viandante attuale, discendente di tutti i flâneur e i wanderer romantici e post-romantici, antico compagno di un eterno Ulisse o Enea sempre alla ricerca di una terra promessa e mai stanco di assumere nella sua esperienza anche i vuoti e gli intervalli di un’avventura tutt’altro che soddisfacente. Il binomio restare/partire dichiara l’inquietudine tutta moderna di chi ha perduto alcuni riferimenti fondamentali, ma sa che nella dispersione dei luoghi incontrati c’è il ritrovamento di ciò che pur vicino mostra improvvisamente le sue ricchezze sconosciute o sottovalutate o addirittura irrise.

       Ritornare, non solo geograficamente, al paese ma con questo sentimento di riappropriazione è stato anche il processo seguito dagli emigrati rientrati nell’epoca del post-boom italiano. Dopo un’esperienza del genere non esisteva più solo il ‘’locale’’ o il ‘’globale’’, ma si manifestava con sempre maggiore percezione epocale il ‘’glocale’’, l’appartenere con uguale cittadinanza ad un mondo il cui paradigma era ormai diventato il movimento alterno di andate e ritorni, del qui e altrove di una mentalità diventata più elastica. Più che essere esiliati da un luogo, si restava esiliati da un tempo, ciò che nella versione più pura della nostalgia è proprio quel nucleo indistruttibile di memoria che ci rende consapevoli di non poter più recuperare il passato se non attraverso, appunto, l’apparato dei ricordi che pure hanno una grande funzione consolatoria.

     Il viaggio nel vicino, dunque, è altrettanto avventuroso di quello nel lontano, ce l’ha ripetuto anche Claudio Magris esperto di navigazioni marine quanto fluviali. Il ‘’restante inquieto’’ di Teti è questo nuovo individuo che torna a guardare il suo paese con occhi nuovi, che tenta di riappartenere ai luoghi, alla loro storia cancellata, alle sue voci inascoltate. Lo fa con la dovuta lenta attenzione come fanno i camminanti e i pellegrini delle vie religiose e dei tratturi, andando ‘’spersi’’ attraverso un paesaggio colmo di storia e di stratificazioni. I restanti e la loro inquietudine generano una psiche felicemente produttiva anche in campo immaginativo e letterario: sono quelli che amano l’altro, il doppio, il lontano. Diventano o possono diventare grandi artisti, grandi frequentatori di una parola che finisce per risultare lingua del perduto: facendo sì, insomma, che la letteratura sia uno strumento per salvare i paesi abbandonati, le memorie dimenticate (qui la mente va istintivamente ai Verga, Deledda, Alvaro, Silone, Scotellaro, solo per limitarci ai paralleli del sud).

      Ma siamo già oltre, siamo già ad un altro più attuale funzionamento della dualità restare/partire. L’inquietudine dell’uomo post-moderno, anche se appartiene pur sempre ad un individuo per costituzione ‘’nostalgico’’, può attuarsi in una più distesa libertà se non si sentirà legato a luoghi particolari e tutto riporterà alla dinamica della coscienza che vuole un presente in movimento proprio sulla base di ciò che è sopravvissuto, di ciò che è passato.

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