Giacomo Trinci, Transiti
Posted 23/12/2022
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Giacomo Trinci, Transiti
Luca Sossella editore, 2021
di Paolo Testone
La scrittura poetica di Trinci si colloca nella prospettiva ideologica delle avanguardie novecentesche che hanno dichiarato guerra a una realtà alienante agendo sulle forme della comunicazione. Rivolgendosi a un mondo di giovani smarriti nel deserto e nella «piatta amorfità» del presente, eppure ispirati da una «misteriosa negligenza» che rivela la ricerca di altro, il poeta sembra voler offrire una via di uscita, «una lingua che scalda il mio disordine in vista di un nuovo ordine». Siamo di fronte a un atteggiamento di denuncia sociale animata da propositi palingenetici. Questo implica la resa dei conti con lo squallore e la prospettiva di un suo superamento, per cui è necessario attingere al magma, a un disordine per il quale il barbone della filippica pasquale «diceva il dire, non il detto prima».
Di qui un lavoro sulle strutture del linguaggio e della significazione, che invita il lettore ad attraversare un caos che talvolta si risolve una icasticità sentenziosa: «avviso ai narcisisti: / tutto è comune: anche d’io […] il proprio è l’altro, l’io condominiale», «basta un niente per diventare dio / ti basta di fuggire nel non io», dove si coglie l’invito a un percorso dall’io all’altro inteso come cammino di liberazione o, in altri termini, di incontro con il divino, inteso secondo categorie immanentistiche: «basta un niente per diventare dio / ti basta di fuggire nel non io».
In una poesia scandita da reiterati punti di sospensione e omissis, il detto si intreccia continuamente con il non detto, l’esplicito con l’implicito rispetto al quale è frammento, segmento verbale che emerge rispetto alla sorgente profonda vorticosa e incessante delle possibilità espressive, frantumato e ritmicamente scandito al suo interno da punti grafici: «(…) / fallire il fallimento, è perfezione. / l’aprì. non seppe aprirlo. il coinvolto. / non seppe consegnarsi all’inazione. / presto. non detto. per poco che è tolto. / rivolto il non risolto. un tanto al fatto. / non seppe mai. non seppe. non ha tratto».
Dante, Petrarca, Mandel’štam, Celan, Pasolini sono i poeti di Trinci, i suoi modelli di «stile materico e potentemente metrico», paradigmi di un modo di fare poesia che consiste nel subire l’aggressione del caos impugnando forbici e martello, tagliando, ritmando, incidendo «con delicata spietatezza». Operazioni che si fanno necessarie quando «la notte vera sopra di noi. si abbatte» e «duole la lingua dove il mondo batte», mentre è anche vero, specularmente, che «duole il mondo, dove la lingua batte». Lingua e mondo sono in stretta relazione tra loro. Si implicano vicendevolmente. L’alienazione sociale e le iniquità della storia chiamano in causa, come si è detto, il problema del linguaggio, che anela a un superamento della sua reificazione, a una sua trasformazione in canto: «lasciamo questo egitto. coi bambini. / portiamo il canto. abbandoniamo il conto. / che non torna».
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