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DISTOPIE LIQUIDE / 8

Posted on: 09/01/2023

Klee, AngelusNovus

A un anno di distanza dalla pubblicazione su questo blog dell’articolo di Daniele Maria Pegorari intitolato Cibernetica sociale e felicità (9 gennaio 2022; poi pubblicato anche nell’antologia Il gommone forato. La poesia civile del Realismo Terminale, a cura di T. Di Malta, Puntoacapo, Pasturana 2022, pp. 26-31), Daniela Bisagno, italianista e scrittrice genovese, ne commenta la tesi ivi espressa, mantenendo vivo il dibattito. L’articolo è concepito a mo’ di lettera responsiva.

Il puro, l’impuro, l’invisibile

di Daniela Bisagno

Caro Daniele,

ti devo più di una scusa, se solo adesso, dopo tanto tempo, ho deciso di raccogliere il tuo invito a esprimere qualche considerazione in merito a quel tuo articolo pubblicato sul blog di «incroci», che mi avevi mandato quasi un anno fa. Diverse sono le ragioni per cui non ho risposto con la prontezza che sarebbe stata auspicabile e che io stessa avrei desiderato, visto che l’intenzione di ragionarci (e lavorarci) sopra l’avevo, eccome. A giocare un ruolo non secondario in essa, è stato, in larga misura, il timore di addentrarmi in un territorio minato, col rischio tangibilissimo di saltare per aria al primo (incauto) movimento. Sinceramente mi sentivo (e mi sento tuttora) un po’ in imbarazzo a misurarmi con certi temi entrando nel merito di dinamiche così complicate. E non perché ritenga che non mi riguardino e non mi coinvolgano – anch’io sono una parte, minima, ma pur sempre una parte, di questo insieme complesso che chiamiamo società –, ma perché non credo di possedere né la capacità, né le competenze necessarie, e neppure il lessico per parlare con cognizione di causa di questi argomenti o per affrontarli in quest’ottica.

Senza considerare, poi, la sensazione di estraneità che il linguaggio della sociologia e delle scienze affini mi ha sempre suscitato; parole come cibernetica, ad esempio, mi suonano strane, come se venissero da un’altra galassia. Il che non vuol dire che la tua riflessione non avesse destato il mio interesse, anche perché entrava nel vivo di un tema, come quello della felicità, che non mi è mai stato indifferente e che avevo toccato anch’io, qualche volta, ad esempio nei miei saggi su Pontiggia, anche se sviluppandolo in una prospettiva ermeneutica più letterario-filosofica. Perciò vorrei tentare, sia pure a distanza di tanto tempo, nella speranza tu voglia accogliere lo stesso e con indulgenza le mie ingenue riflessioni, di dire qualcosa anch’io sulle questioni da te sollevate nel tuo articolo. Parto dal tuo assunto, e cioè dalle tue considerazioni sul nuovo modello di società che ha finito per sostituirsi, al termine di un lungo processo quarantennale, a quello politico liberal-democratico, e che tu definisci con il termine «tecnocrazia».

Si tratta di una «società amministrata» o «cibernetica sociale», osservi tu, sulla nobile falsariga di Horkheimer e Adorno, non più fondata su un confronto dialettico fra differenti visioni del mondo, bensì sull’esecuzione di procedure considerate «necessarie» e che perciò sarebbe inutile sottoporre a una valutazione di merito, indispensabile al fine di stabilire la bontà, la desiderabilità, l’opportunità o meno del provvedimento. La cui ‘bontà’ riposerebbe interamente sulla sua ‘necessità’, il che lo rende ipso facto eseguibile, saltando a piè pari tutti i passaggi intermedi del processo. Sicché la correttezza dell’esecuzione non è tanto la conferma della bontà della cosa (che non viene assolutamente messa in questione), quanto la prova dell’efficienza dell’esecutore, o della sua totale inettitudine, in caso contrario.

Se un’ombra c’è, questa ricade decisamente su quest’ultimo e sulla sua incapacità, cioè sulla sua carenza dell’unica virtù richiesta a un mero ‘esecutore’ che non sta nell’interrogarsi sulla bontà della cosa, proprio perché essa è data come inoppugnabile, incontrovertibile – una Verità –, al punto che il cattivo esecutore, più ancora che un inetto, è una sorta di eretico, ‘una creatura fuori della Verità’, dunque indegna di far parte del consorzio umano, come indica esplicitamente il termine «parassita», che tu hai usato e che lo qualifica in tutta la sua conclamata abiezione.

C’è – o almeno, io vi ravviso – in questa posizione, un’intransigenza che ha la medesima radice del fanatismo. La trasformazione stessa della scienza in un’ideologia della neutralità o incontrovertibilità, a cui stiamo assistendo in questa ‘fase transitoria’, che ripristina i fasti del positivismo del secondo Ottocento (tant’è che tu ti senti autorizzato a parlare di neo-positivismo o di neo-scientismo strisciante) è un indizio non trascurabile, secondo me, di tale processo involutivo. Insomma, ciò che è a rischio è la sopravvivenza stessa del pensiero critico, sempre pronto a proiettare l’ombra del dubbio sui paesaggi illuminati dal sole accecante di un Logos che si identifica con la Verità (ma è la stessa solare chiarezza di un certo razionalismo oltranzista che appiattisce gli eventi e occulta ‘tante luminose realtà’ già denunciata, ad esempio, da Maria Zambrano) e l’esistenza stessa della scienza, la quale di dubbi si nutre, come osservi tu, e procede claudicante, con il piede zoppo di Saturno, più che con il passo alato di Ermes, fra un’acquisizione e una perdita, scarsi successi e quei pochi conseguiti a prezzo di innumerevoli sconfitte.

L’equazione Verità-efficienza, donde il pre-giudizio che il mondo debba «andare naturaliter in una sola direzione», sottintende quella fra Verità e Virtù. Sicché colui il quale, per costumi, visione del mondo e delle cose, non si conforma al modello performativo vigente, non è percepito come un diverso, sic et simpliciter, un dissenziente, ma come un non-virtuoso, cioè a dire, un indigeno del Paese della Non-Verità. Ma se ciò che non coincide con il vero è nulla, anche costui, in quanto abitante di un mondo-che-non-è, finisce per essere risucchiato nel gorgo della non-esistenza. Mi chiedo se questo non sia anche il modello in grado di spiegare le dinamiche che entrano in gioco nei nostri quotidiani rapporti con gli altri. Mi riferisco in particolare a quella tendenza, consolidatasi a partire dal periodo post-pandemico e ormai dilagante, a ostracizzare ogni interlocutore il quale non sia sintonizzato sulle nostre medesime frequenze culturali, ad additarlo come un elemento estraneo da estromettere a tutti i costi dal nostro spazio vitale, secondo una consuetudine non priva di analogie con la damnatio memoriae (sui social si usa  ‘bloccare’ l’odioso dissidente) o con la prassi dell’ostracismo, entrambe in voga nell’antichità.

Anche le dinamiche delle relazioni umane, le nostre modalità di interazione con gli altri, funzionano dunque seguendo questo paradigma, per cui – potrei dire parafrasandoti – se la pensi come noi, allora ‘sei uno di noi’; in caso contrario, non sei un avversario, ma «semplicemente non sei» o non sei più. Come se il non omologato fosse il portatore di un miasma contagioso, l’impuro che va rimosso ad ogni costo dalla comunità (è la sorte del re Edipo nella tragedia sofoclea, per fare un esempio nobile), perché ne va dell’integrità dei suoi membri, della loro felicità. E qui entriamo nel vivo della questione, visto che in gioco, nel modello tecnocratico, è, come dici, «la fine dell’autonomia di ciascuno di noi di stabilire che cosa lo renda felice».

L’essenziale infatti non sta nella nostra possibilità (e capacità) di scegliere, quanto nel conformarsi acritico a un modello performativo «per il quale non ci si propone la felicità», ma quella sorta di (pseudo)felicità, che si riduce all’esperienza immediata della propria pienezza, a quanto accade (succede) nell’istante, il successo, appunto, a cui appartiene, a differenza della felicità («la felicità si distende lungo una curva ed è una svista risolverla nell’istante», scrive Salvatore Natoli), una natura ‘attimica’.

Con un’audacia almeno pari alla mia insipienza, potrei azzardare che, se tale modello performativo è destinato a godere, se non gode già, di una certa fortuna, è perché corrisponde a una tendenza connaturata all’essere umano a lasciarsi conquistare «dall’immediatezza della soddisfazione, appiattendosi su di essa». Ma in questo modo la felicità finisce col diventare un pericolo per l’uomo, perché rischia di trasferire nell’oblio la complessità dell’esistenza e, insieme con essa, l’operare del dolore, della malattia – segnatamente della morte, che costituisce il vero limite, inamovibile, inaggirabile, alla nostra conquista della felicità, intesa come successo, esperienza immediata, ‘attimica’, della nostra pienezza. Nell’istante in cui entriamo nel cono d’ombra della morte, ecco che tutti i nostri tentativi di conquistare il successo, ogni nostro conato verso il raggiungimento di quello che, sino a un attimo prima, era il nostro obiettivo primario, si dissolvono come immagini di sogno.

Mi viene il sospetto – e scusami se arrivo forse troppo in fretta a tirare le fila delle conclusioni, saltando a piè pari tutti i passaggi intermedi – che quella «coazione ossessiva alla metamorfosi» della massa, su cui si fonda la stabilità del potere tecnocratico, quell’identità leggera e proteiforme dell’individuo, di cui tu parli, si lasci interpretare (anche) come una sorta di strategia messa in campo nell’illusione di aggirare il più possibile o di eludere gli effetti devastanti dell’operare della morte. Persino l’invisibilità (insieme all’intangibilità e alla purezza, uno dei requisiti essenziali della ‘cosa pura’ per eccellenza – il ‘divino’), l’ideale a cui aspira la tecnocrazia, non potrebbe rappresentare, al contrario di quanto si credeva nel tempo antico, quando il potere usava attingere a un repertorio vastissimo di emblemi, blasoni, simboli di un’autorità che si pensava tanto più imponente quanto più esibita, enfatizzata, cioè (appunto) visibile, una tattica finalizzata a sfuggire agli attacchi certi, seppure imprevedibili, della Grande Avversaria?

Senza dimenticare che la morte o, più precisamente, la spoglia inanimata, cioè l’oggetto su cui la morte opera, con la pazienza di un antico alchimista, le sue trasmutazioni, ha sempre rappresentato, più ancora della sporcizia o della malattia, quanto vi è di più ‘visibile’ (esposto) e, insieme, di più impuro e contaminante, tanto da richiederne la sollecita rimozione, per tutelare la comunità dal diffondersi di un contagio potenzialmente micidiale. La spoglia mortale (il cadavere) va trasferito d’urgenza nell’invisibile, dove finirà per recuperare, al termine di un lungo processo, quella purezza a cui, rimosso ogni residuo di impurità (visibilità), aspira, in fondo, il potere, nella fattispecie, quello tecnocratico.

Nulla di nuovo in tutto ciò: l’astuzia del potere sembra rifarsi a un modello antico come il mondo, cioè a quella pratica adottata da animali e piante (ma emulata anche da certi giochi infantili), consistente nel mimetizzarsi (nel trasformarsi in altro), ovvero nel rendersi invisibili, onde sottrarsi alle aggressioni del nemico. Ma ‘fare come se non ci fossimo, pur essendoci’ritirarsi nell’invisibile – è un’astuzia geniale, una trappola ingegnosa in cui è destinato a cadere, presto o tardi, proprio colui il quale l’ha escogitata. L’ingannatore si trasforma in ingannato (un po’ come nell’epilogo di certe fiabe), finendo paradossalmente per fare il gioco dell’avversario, cioè per venire risucchiato nel gorgo di quell’invisibile in cui si illudeva di trovare il proprio baluardo. E qui mi fermo, perché, in tutta franchezza, non saprei immaginare quale scenario possa profilarsi al di là della frontiera che ho cercato, sia pur malamente, di delineare nel corso di questa mia riflessione.

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«incroci» – semestrale di letteratura e altre scritture

direzione: Lino Angiuli •  Daniele Maria Pegorari • Raffaele Nigro

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