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Fortunato Buttiglione, “Le ragioni dello zenzero”

Posted on: 02/02/2024

buttiglioneFortunato Buttiglione, Le ragioni dello zenzero

Vigilante, Roma 2019.

di Paolo Fiore

«Non sapremo mai davvero quando il fuoco si è acceso / siamo solo i suoi custodi lo vegliamo e lo teniamo vivo», scrive Fortunato Buttiglione nella poesia Mistero, che si può considerare una tra le più emblematiche di questa raccolta: mysterion è, etimologicamente, un fenomeno che non può essere spiegato. Il verbo indica l’atto del chiudersi, in senso riflessivo, nello specifico di chiudere la bocca e gli occhi perché è in questione la dimensione dell’enigma il cui tentativo esplicativo rasenta la follia. Ma poiché questo, appunto, è lo scopo della poesia, essa è, perciò stesso, follia.

Con questi versi Buttiglione ci scaraventa nel fluire del tempo, ci porta in medias res, analogamente a ciò che fa Omero, perché anche noi umani entriamo sul palcoscenico del mondo, a scena già aperta. Poiché è vero che siamo un ‘progetto’ che è nel nostro DNA, secondo il quale, a differenza delle altre specie animali, la dimensione istintuale è meno prevalente, ma, comunque, un progetto ‘gettato nel mondo’ per dirla con Heidegger, in quanto non abbiamo scelto in prima persona di nascere. Siamo stati chiamati, in qualche modo, proprio per tener vivo quel fuoco, essendo le sue ‘vestali’, per non farlo spegnere, pena essere sepolti vivi come quelle sacerdotesse, appunto, in una vita vegetativa. «Ego te amata capio» (io scelgo te, o mia amata) era la formula pronunziata dal pontifex maximus quando si nominava una vestale.

Non scegliamo, dunque, ma siamo scelti. Anche la nostra nascita è frutto della scelta di altri e in questo consisterebbe la poesia, allora, nel mantenere viva quella fiamma, quello spirito che certamente ci pervade ma che ci precede e, attraversandoci, ci sopravviverà, ma, come aggiunge Fortunato, «senza spegnerci [perché] resta l’eco remota dei nostri nomi invocati e redenti in un’altra vita»: e questo è l’altro verso capitale della sua poesia. Qui emerge la dimensione centrale della nominazione, dell’invocazione, che rimanda direttamente alla dimensione fondamentale per l’uomo che è quella dell’alterità.

Lacan affermava che «il nostro nome è sempre il nome dell’altro» in quanto è sempre l’altro che ci nomina. Veniamo all’esistenza quando veniamo nominati dall’altro, ma non è sufficiente nominare, chiamare qualcuno. La nostra «parola è piena», afferma Lacan, «quando intercetta la benedizione dell’ascolto dell’altro», altrimenti è «vuota», è come un «bronzo risonante o un cembalo che tintinna», è rumore, come direbbe san Paolo nel bellissimo inno all’amore della I Lettera ai Corinzi. Ecco allora, che quel verso, «I nostri nomi Invocati e redenti in un’altra vita», si potrebbe intendere nel senso di ‘redenti nella vita di un altro, nella vita dell’altro’, poiché non c’è ‘redenzione’ se non nella ‘relazione’ e invocazione e redenzione sono interconnesse solo nella relazione.

Come non ritornare allora alla fonte inesauribile del mito e, in particolare, alla straordinaria lettura ovidiana del racconto di Eco e Narciso, condannati all’incomunicabilità. Eco è condannata, per uno sbaglio commesso, a ripetere le ultime sillabe dei nomi che ascoltava senza la possibilità di pronunziare un nome completo; ne pagherà le conseguenze quando si innamorerà di Narciso. Narciso è imprigionato nel circolo vizioso dell’autoreferenzialità, nell’incapacità di accettare di farsi nominare dall’altro, perché il nostro nome è autentico, pieno, solo se è nominato dall’altro, mentre Narciso sa solo chiamare se stesso.

Sono due corpi in realtà afoni e condannati alla consunzione, a lasciarsi spegnere già in vita, l’esatto contrario di ciò che produce il fuoco della poesia che consuma perché coinvolge, ma senza spegnere la vita, anzi proprio costituendone la ragione ultima. Ma il nome non è un monolite, un’entità statica, al contrario si manifesta in un divenire e in una generazione, una costruzione – potremmo dire – lettera per lettera, come ritroviamo nel componimento Ninfa delle acque in cui Buttiglione invoca un secondo elemento naturale, l’acqua: «Il tuo nome sgorga in liquide lettere / e si raccoglie nell’ansa delle mani / dove ripara in melodiosa risacca». È l’eco delle parole che continua a riverberare in quella liquidità. Ma la poesia deve cogliere anche il limite della condizione umana che si manifesta necessariamente nel limite del linguaggio, per cui le parole possono ‘incestuosamente’ combinarsi solo con altre parole, in un’aporia senza uscita, nell’incapacità di esplorare territori sconosciuti, in una tautologia che non riesce a cogliere la totalità, tanto che, come prosegue quel testo, «l’approdo resta interdetto», sapendo tuttavia coglierne l’essenza: «Ti riconosco nell’andirivieni estatico / tra mari incestuosi e isole sconosciute / dove l’approdo resta interdetto ai naufraghi».

È, in definitiva, l’‘eterno implicito’ della poesia, quella fenditura nella roccia da cui sgorga la parola come semplice e pur prezioso ‘resto’ di un linguaggio carsico che scorre più in profondità.

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