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TEMPORANEA QUALITÀ E FALSA DEMOCRAZIA DELL’EDITORIA DIGITALE

Posted on: 14/11/2014

di Daniele Maria Pegorari

La recente uscita per Minimum fax di un bel libro di Alessandro Gazoia (noto nella blogosfera come Jumpinshark), Come finisce il libro. Contro la falsa democrazia dell’editoria digitale, sollecita nuove riflessioni a sostegno del nesso, a mio avviso molto stretto, fra precarizzazione dell’esistenza, crisi del capitalismo e digitalizzazione della filiera editoriale. Nel mio post precedente (a proposito di un saggio di Alessandro Ludovico) avevo puntato il dito sull’impermanenza delle fonti online, col paradosso per il quale il web è, sì, lo spazio in cui l’informazione raggiunge la sua massima intensità di flusso e, per certi aspetti, la sua eternità (una calunnia individuale, un documento pedopornografico, una falsificazione ideologica possono non sparire mai, a patto che qualcuno ne abbia salvato il contenuto e magari l’abbia sprofondato nel deep web, dove potrà continuare a propagarsi come un virus o come un parassita), ma al contempo è un archivio in cui le fonti possono rapidamente e senza preavviso essere spostate, rimosse o collocate sotto altra ‘etichetta’, divenendo, di fatto, generalmente non rintracciabili. Il che, invece, sarebbe un diritto inalienabile per chiunque, oltre che un’inderogabile necessità epistemologica. Gazoia, concentrando la propria attenzione soprattutto sul tema del self-publishing (e indichiamo così, complessivamente, sia i siti di auto-pubblicazione di libri elettronici, sia le piattaforme dei blog gratuiti, proprio come quella su cui ‘si appoggia’ il blog che stai leggendo), suona l’allarme per i tanti autori digitali che affidano i propri contenuti a questi nuovi media, ignorando la loro pericolosissima labilità.

Infatti, a dispetto dell’ideologia del ‘dovunque, sempre, qualunque cosa’, nessun nostro testo affidato alla rete può essere protetto per un tempo ragionevolmente lungo, non dico paragonabile a quello che ci separa dai rotoli di Qumran (ancora leggibili), ma nemmeno per un lustro o due. Quelli fra noi che sono convinti di partecipare a una grande fase eroica di democratizzazione del pianeta e di collettivizzazione delle conoscenze dovrebbero cominciare a riflettere sul fatto che ogni operazione cognitiva compiuta per il web (compresa la mia scrittura di questo articolo a valle dello studio del libro di Gazoia, che va dunque calcolato nel mio ‘tempo di lavoro’) non è un ‘bene comune’, ma lo sviluppo di un contenuto che gratuitamente viene messo a disposizione di un operatore commerciale che lo utilizza come segmento di un flusso più ampio, il cui scopo è, sempre e soltanto, la monetizzazione. Le aziende che sono dietro i social media (attori fondamentali del capitalismo informazionale) utilizzano questo stesso mio post (e il lavoro ermeneutico che c’è dietro, evidentemente) come ‘esca’ per un lettore (che io stesso mi sarò attivato perché sia coinvolto nella lettura e nel processo di condivisione) dal quale ci si può attendere che, giacché c’è, possa poi acquistare qualcosa. Quando poi quell’operatore dovesse «chiudere, fallire, dedicarsi ad altro» (e la prima di queste azioni non è un’eventualità, ma una certezza assoluta, ancorché a scadenza indeterminata, giacché nulla, ma proprio nulla è eterno: e almeno questo è dimostrato!), egli non ha «alcun obbligo verso gli utenti e i contenuti da loro prodotti» (p. 60).

Allora, se così tanti sono gli autori di informazioni e di letteratura per il web (ma bene fa Gazoia a chiamarli semplicemente «utenti», perché proprio la loro autorialità è destituita di ogni fondamento), questo dimostra che oramai la precarizzazione dell’esistenza è un dato talmente introiettato e accettato – più che con rassegnazione, con languida morbosità – che la Temporanea Qualità, cioè la durata totalmente effimera e l’incerta titolarità dei testi, non fa paura quanto dovrebbe. Se la mia stessa condizione di vita è ‘liquida’, perché mai dovrei cercare per i miei pensieri ‘liquidi’ una forma stabile? E così, con buona pace dei cantori del neomoderno, ecco che la postmodernità si palesa nella sua più palmare evidenza.

Altro dato che può confermarlo è la natura paraletteraria della gran parte della scrittura promossa dall’editoria digitale, con particolare riferimento sia a ilmiolibro.it (che però nasce per il libro cartaceo) sia al Kindle Direct Publishing (canale potentissimo di immondizia in formato mobi, il cattivo equivalente dell’epub per i clienti Amazon che cadono nella trappola del lettore ‘dedicato’ Kindle: ma nel libro erroneamente spesso si legge Program al posto di Publishing). Ormai sono migliaia nel mondo i libriccini elettronici di genere rosa, erotico, noir, horror, fantasy e più spesso tutto questo insieme, solitamente frutto di contaminazioni e sviluppi di storie seriali di successo: è il fenomeno della cosiddetta fan fiction, la narrativa delle comunità dei fan che derivano dal loro ‘canone’ personaggi e altri elementi e li combinano in un’ingenua illusione di gratuità e condivisione e invece creano inconsapevolmente una clientela fidelizzata a uso e consumo degli editori e degli autori del ‘canone’. In questa modalità ludica e combinatoria («derivata» e «trasformativa», scrive Gazoia alle pp. 168-180) possiamo agevolmente riconoscere un cascame di matrice postmodernista. Non immaginavo nemmeno che si potesse scrivere una sola pagina intorno al caso (tutt’altro che pietoso, per giunta) di una fanciulla posseduta da un dinosauro, ma l’autore di Come finisce il libro ci informa che di storie così se ne può riempire una biblioteca.  

A chi dovesse spuntare un principio di sorriso, devo spegnere ogni istinto alla leggerezza, pur legittimo: attenti, siamo già stati capaci di trasformare in opere di culto (persino dandoci qualche aria snob) pessime storie di necrofilia e di revenants (il francese è sempre un po’ chic e ci salva), non ci vorrà molto a inventarsi corsi di sociologia del ‘dinosaur erotica’. Qualche studioso, magari pure valente e nemmeno giovanissimo, si metterà a inseguire la moda, pensando di fare un buon servizio alla vitalità della critica e non farà, invece, che contribuire a inoculare involontariamente il parassita, rendendo la critica, e la letteratura nel suo insieme, una mera funzione del sistema economico di sfruttamento. Abbandonando il proprio ruolo di elaboratori di una narrazione complessa della realtà, scrittori e filologi cedono tutto il campo alla narrazione semplificata, tipica del web e in specie dei social, che io chiamerei ‘speculare’: anziché una letteratura potente che sappia rompere gli argini immateriali del labirinto, la comunicazione digitale tende ad assuefare i lettori/internauti/clienti a un racconto ‘in stile’ Facebook o Twitter, cioè veloce, frammentario, evasivo, irresponsabile, inesperto.

Piuttosto che critici attenti, preparati e prudenti, l’attuale filiera editoriale, nel momento in cui accentua la propria digitalizzazione, preferisce le ‘recensioni’ in 140 caratteri, i commenti postati nelle pagine di pubblicità del libro, esattamente nella stessa logica con cui l’industria turistica si affida a sistemi come Trip Advisor. L’amico che commenta entusiasticamente e ‘in tempo reale’ il mio ebook sul sito di Bompiani fa più comodo di una recensione più o meno scientifica accolta da una rivista seria fra sei mesi: non costa niente, ha immediata evidenza, non promette ma fa sperare nella traducibilità commerciale di quel commento e così il mio amico, senza volerlo, diventa anche lui un proletario cognitivo.

A proposito, entra anche tu nel fantastico mondo dell’intelligenza esternalizzata e ‘condividi’ queste riflessioni…

4 Risposte to "TEMPORANEA QUALITÀ E FALSA DEMOCRAZIA DELL’EDITORIA DIGITALE"

Alcuni Amici di “incroci”, valutando dei miei ultimi post soprattutto l’aspetto della “lamentatio”, mi chiedono se non sia il caso anche che io cominci a suggerire alcune soluzioni ai problemi dell’editoria elettronica che pure sono largamente condivisi. Io ritengo, però, che sia più rispettoso lasciare agli “operatori”, cioè agli editori e ai bibliotecari, la ricerca di vie d’uscita, poiché ai critici e ai sociologi spetta soprattutto l’ingrato compito di fare le cassandre, cioè scendere in profondità nell’analisi dei problemi, individuando tutte le criticità senza tralasciare nulla. Ma siccome non voglio sottrarmi alla provocazione (perché potrebbe apparire, la mia, una posizione troppo comoda), vorrei almeno suggerire cinque questioni molto concrete, sulle quali sarà necessario trovare al più presto delle soluzioni.
1) Bisogna arrivare a una regolamentazione mondiale e senza eccezioni per garantire la conservazione permanente dei protocolli di lettura di questi file. Non è possibile rischiare che un patrimonio di libri (privato/familiare o pubblico/bibliotecario che sia) divenga illeggibile per questioni di obsolescenza nell’arco di alcuni anni, fossero anche dieci o venti.
2) Bisogna pervenire a un’estensione su larga scala del print on demand (lo possono fare i singoli editori, oppure si possono immaginare dei servizi offerti da “copisterie evolute”, oppure si possono creare dei servizi web, o al limite delle stampanti domestiche: ma quest’ultima sarebbe una pessima soluzione): non è possibile che di un libro edito solo in formato elettronico, non sia possibile ottenere anche una edizione cartacea, sia pure molto molto economica e non rivendibile. Se i grandi editori tradizionali non si adatteranno a questa logica, saranno i meno adatti ad affrontare il mercato elettronico.
3) Il libro elettronico deve diventare un file vero e proprio (come accade per il commercio della musica, a cui spesso la vendita di libri elettronici viene paragonata, con molta ambiguità e inesattezza). Non so come gli editori potranno proteggersi dalle copie pirata, ma certo è che bisogna arrivare al pieno possesso del file da parte del lettore: io devo comprare un oggetto (sia pure elettronico), non una licenza d’uso, un oggetto che non mi possa essere alienato e che io possa trasmettere di generazione in generazione. Si rischia una catastrofe antropologica di non poco conto, quella per cui all’accumulazione di “capitale culturale” da parte di un soggetto non possa corrispondere la costruzione di una relazione sociale e generazionale, com’è sempre stato nella storia dell’umanità.
4) Come suggerisce anche lo stesso Gian Arturo Ferrari (che pure è un sostenitore, anche troppo, del libro elettronico), l’editore non può abbandonare un ebook al suo destino di invisibilità: deve proporre all’autore un’edizione elettronica solo in cambio di una decisa strategia di marketing che non può coincidere in toto con quella del libro di carta. Quest’ultimo, nella sua fisicità, è già il miglior testimonial di se stesso, mentre l’ebook viene sommerso nel flusso rizomatico delle comunicazioni digitali. Da questo punto di vista, pubblicare un ebook senza promuoverlo non è meno disetico che pubblicare a pagamento, giacché in entrambi i casi si scarica sull’autore un rischio che dovrebbe essere a totale carico dell’editore. In caso contrario, davvero non ci sarebbe modo di ostacolare l’autopubblicazione, poiché l’esperienza di ogni autore elettronico è che, poi, deve arrangiarsi da solo. Tanto vale diventare “ostaggi” di Amazon o simili.
5) Bisogna decidere cosa pubblicare in elettronica e cosa pubblicare su carta: la permanenza del doppio canale non agevola l’evoluzione del sistema verso il digitale e non aiuta nemmeno la filiera editoriale a risollevarsi dalla crisi economica. Questo apre due tendenziali possibilità, ma alternative l’una all’altra e “vincerà” l’editore che imboccherà la strada economicamente più efficace. La prima è che si utilizzi l’edizione elettronica per i settori di nicchia (ad esempio l’editoria scientifica, la letteratura erudita, i classici minori), in modo che non si strangolino questi segmenti di produzione, ma anzi si aumenti l’offerta col contenimento però dei costi di produzione: tanto i “consumatori” di questi settori bibliografici sono molto motivati e possono adattarsi meglio a leggere sui device (è dimostrato, peraltro, che attualmente i più pronti a utilizzare la lettura elettronica sono i lettori forti e non certo quelli deboli, come speravano i vari guru futurologi). La seconda è la soluzione diametralmente opposta: si potrebbe destinare all’elettronica tutta l’editoria mainstream, commerciale, di grandissima diffusione, in modo tale da massimizzare i ricavi, poiché si potrebbero vendere molte migliaia di copie di oggetti elettronici dal costo unitario pari a zero, lasciando, invece alla carta, l’editoria di nicchia, che solitamente ha bisogno di tempi di lettura più lenti e riflessivi. Non saprei come dirlo in maniera che suoni anche politicamente corretto, ma non si può negare che l’editoria “di nicchia” coincida, non sempre ma in gran parte, con la produzione di letteratura “di qualità”.

condivido in toto l’analisi fatta da Daniele Maria Pegorari, non avrei altro da aggiungere.

Anche nel campo dell’editoria non esiste più l’ingenua dittatura di un tempo. Oggi l’assenza di democrazia è sostenuta dall’illusorietà di libertà, pagata a tutti gli utenti con apparenti benefici. In cambio del fittizio pluralismo liquido della rete anche la letteratura e il mondo che la circonda viene annegata ed omologata, bruciata in tempi ridottissimi e privata della sua funzione critica e infine, forse, dimenticata per sempre.
L’unica certezza è il guadagno di chi sfrutta i nostri sensi per stimolare l’acquisto di prodotti non necessari.

Proprio così, caro Delio, e su questo volto profondo dell’editoria digitale il libro di Gazoia è davvero una buona lettura. Come quando, proprio in conclusione, segnala che «le condizioni lavorative dei dipendenti di Amazon» e «le clausole commerciali imposte agli editori» e agli scrittori stanno davvero cambiando la natura del mercato editoriale e infine la stessa società. E non in meglio. Una dimostrazione in più che «vittoria del mercato» e «progresso sociale» non vanno automaticamente insieme.

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