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Loredana Bogliun, “Par Creisto inseina imbroio”

Posted on: 20/04/2024

bogliunLoredana Bogliun, Par Creisto inseina imbroio (Per Cristo senza inganno)

Book Editore, Riva del Po 2021

di Marco Bellini

Accostarsi all’opera di Loredana Bogliun, nello specifico al volume Par Creisto inseina imbroio, significa disporsi con il corpo, la carne e anche l’anima – sostantivo dall’utilizzo rischioso che la nostra autrice non teme di considerare con frequenza – all’incontro con una terra ben precisa e con una storia che la definisce. Mi riferisco ad un paese, Dignano d’Istria, il cui nome costituisce di per sé una dichiarazione di appartenenza a un determinato territorio: l’Istria, con tutto il suo carico di vicende umane. Si tratta di luoghi attraversati, nell’ultimo secolo, da lacerazioni e sofferenze dalla forza dirompente. Non si può non considerare l’orizzonte temporale compreso tra il secondo dopoguerra e l’inizio degli anni Sessanta in cui si è assistito all’esodo che, come spiega la stessa autrice nella nota introduttiva all’opera che andiamo a commentare «ha sconvolto i destini delle genti istriane, costrette ad abbandonare case, lingua e affetti, per volontà politiche ostili al sereno convivere della gente comune».

Ecco un esempio di come l’autrice sviluppa i propri versi per illuminare la ferita, attraversare lo smarrimento: «douto me taꭍo / gnanca ch’a tremasso Ideio // in tai oci fondi / favela cumo de le tombe la ruveina / de la me ꭍento sparneissada par al mondo // vula i vein da ꭍei coussei spagouradi» (tutto mi tace / quasi tremasse Iddio // negli occhi profondi / parla come dalle tombe la rovina / della mia gente dispersa per il mondo // dove dobbiamo andare così impauriti – pag. 41).

Secondo Bogliun, modi possibili per lenire l’angoscia sono, da una parte, il tentativo di ascolto dell’amore e dall’altra, la scelta di accendere uno sguardo appassionato sul mistero accogliente della natura (così Bogliun scrive sempre nella nota introduttiva: «La vita è solo amore». E ancora: «Parlo dell’amore dovuto, per il mondo, per il Creato».).

E nelle liriche: «bel ꭍì al to amur ch’a virgino me cata / i sugnein quil puntein in t’ouna veita sula / sumiiansa nustra d’al suspeir meiraculuꭍo» (è bello l’amore tuo vergine che mi trova / siamo quel puntino in una vita sola / somiglianza nostra dal sospiro miracoloso – pag. 41); «co vardi in alto cul cavo ch’a se ꭍlounga / i vidi le stile in aligreia, squaꭍi persa / me deighi ch’a no ꭍi da scampà veia // a saravo da verꭍi insembro sta maraveia» (quando guardo in alto con la testa che s’allunga / vedo le stelle in allegria, quasi smarrita / mi dico che non si deve scappare via // dovremmo svelare insieme questa meraviglia – pag. 39).

Si tratta di luoghi ancora impegnati in una palingenesi attraverso cui recuperare la definizione di comunità consapevole del proprio passato avvertito come identitario. Uomini e donne, giovani e anziani (si vedano i personaggi che popolano le liriche di questo libro), con pacata determinazione, esperiscono l’affermazione del proprio esistere attraverso i piccoli gesti che intridono ogni giornata.

Bogliun, autrice istriana nata a Pola, in Par Creisto inseina imbroio non esita ad affondare le mani nel passato personale, affidando l’atto creativo all’antico idioma istroromanzo autoctono di una parte dell’Istria. Più precisamente, utilizza la variante dignanese a cui sente di appartenere e che avverte come strumento necessario e autentico per incanalare la propria forza sorgiva: «in quisto leibro i vuravi somenà / doute quile favele ch’a reiva incantade» (in questo libro vorrei seminare / tutte quelle parole che arrivano incantate – pag. 14).

Convocata dalla propria creatività e al servizio di un senso di appartenenza potentissimo, la poeta si dispone all’ascolto di un territorio la cui energia, pervasiva e discreta, sommuove parole, esprime vibrazioni, fibrillazioni cardiache di un tessuto antico che ha nelle lacrime e nelle cicatrici il proprio specchio. Si tratta, quindi, non solo di un atto di autodeterminazione ma, nel contempo, del “farsi carico” di una terra e di un popolo fino all’accoglimento nel grembo fertile delle parole. E così, ecco prendere forma un gesto compiuto messo a fuoco dentro il fiato dell’autrice. Un fiato che si fa di tutti e tutti accoglie, mischiandosi al soffio vitale di un paese e della sua gente che appare capace di una memoria condivisa.

Con un linguaggio che fa della levità la propria cifra, appoggiandosi a termini come sospiro, respiro, vento, l’autrice mette in scena un passato semplicemente evocato, dalla consistenza leggera e proposto con un tratto estremamente misurato. Valutando la pubblicazione a livello di macrotesto, si rileva immediatamente una compattezza e una coerenza che muove da ogni singola poesia. In questo modo, si origina un’energia, affabile e diffusa, che riverbera dentro ogni verso, svelando, nell’intera opera, una luce che trascende la singola pagina. Consapevole del rischio di scivolare in un tono eccessivamente idilliaco, problema frequente della poesia in dialetto, Bogliun, poeta dotata di una scrittura matura, sorveglia la propria voce, assestandola sul piano, ben più elevato, della memoria antropologica. In queste pagine si compie anche uno scavo nell’interiorità profonda di chi scrive. Uno scavo che, per l’autrice, non sarebbe esprimibile se non con il dialetto; vera lingua madre in grado di mettersi in ascolto della sapientia cordis sempre attiva sotto la pelle di tutti noi. Lo spirito dei viventi, dei luoghi e delle cose, mediante un atto di parziale reificazione, pervade ogni spazio / tempo fluttuando nel vento, suggerendo densità alle ombre, guidando la luce a un abbraccio che tutto contiene: «taꭍo la noto ingroumada / in tai cantoin de Dignan // dormo i sameri cu l’anda suspeirada / rispeira le fuie al mar al ꭍogo» (tace la notte raccolta / nei meandri di Dignano // dormono i somari immersi nel loro sospiro / respirano le foglie il mare il gioco – pag. 15).

La parola diviene focolare attorno a cui generazioni lacerate, disarcionate dalla terra di appartenenza, rimescolate con modalità impreviste, trovano un’affermazione di esistenza e un canto che le nomini. Nell’opera dell’autrice, incontriamo un verso, dalla musicalità assolutamente peculiare, in grado di illuminare panorami e personaggi con pennellate morbide dai colori pastello; un verso capace di trasporre sulla pagina un ambiente rurale dalle tradizioni contadine e dal sapore ancestrale. Prendono forma figure come la nonna, il calzolaio e la vedova. Tutti personaggi portatori di un tempo e di una modalità di vita smarriti ma non dimenticati. Assolutamente folgorante la terzina dedicata alla perdita della madre, di fronte alla quale lo spazio bianco della pagina diviene mausoleo destinato ad accogliere il tono icastico e dignitoso di suoni che pietrificano nei versi il mistero della morte. Così, le parole si fanno baratro in cui ognuno potrà guardare, smarrendosi nel silenzio del foglio quasi bianco per riconoscere le proprie perdite e il proprio essere bambino / bambina senza voce: «A ꭍì morta me maro. Gila. / Sei propio gila ch’a la veiva / da veivi par sempro.» (È morta mia madre. Lei. / Sì proprio lei che doveva / vivere per sempre. – pag. 36).

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