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QUANDO C’ERA BERLINGUER: UN FILM E UN LIBRO A CURA DI WALTER VELTRONI

Posted on: 27/07/2014

 

 

QUANDO C’ERA BERLINGUER:

UN FILM E UN LIBRO A CURA DI WALTER VELTRONI

 

 

di Daniele Maria Pegorari

 

Il trentennale della morte di Enrico Berlinguer, avvenuta l’11 giugno 1984 in seguito a un ictus subito quattro giorni prima durante un comizio a Padova, in piazza della Frutta, è stato ricordato in Italia da numerose pubblicazioni, variamente orientate e diversamente documentate; fra queste vorrei segnalare Quando c’era Berlinguer (Rizzoli, Milano 2014), curato da Walter Veltroni, colui che da segretario DS portò nel 2001 il suo partito al minimo storico del 16,6%, la metà dei consensi del partito di Berlinguer (riuscendo, in compenso, a diventare sindaco di Roma) e che, primo segretario PD, perse la sfida alla premiership nel 2008.

Occorre segnalare subito che il libro in questione non è che la trascrizione integrale dei testi utilizzati dall’autore nel bellissimo film-documento brevemente circolato nelle sale italiane nella scorsa primavera, del tutto privi di quell’editing che sarebbe necessario quando si pubblicano lunghe conversazioni per renderle godibili anche alla lettura. Sono dell’opinione che, lungi dall’apparire più ‘freschi’, gli interventi, che all’ascolto suscitano curiosità, interesse, commozione e, naturalmente, riflessione, si consegnano invece ai lettori in una forma tanto sciatta da essere irritante.

Ciò nonostante il libro (come il film da cui è ricavato) è uno degli omaggi più significativi fra quelli resi al segretario e statista comunista, per due ordini di ragioni. Il primo riguarda la sua natura ‘corale’ e non monografica, che scongiura l’interpretazione univoca (univocamente sintonica o univocamente detrattoria), per offrirci quasi una scomposizione ‘cubistica’ del personaggio: si tenga conto che, accanto al profilo offerto nell’introduzione dallo stesso Veltroni (che dichiara di non essere mai stato comunista, pur essendo stato un giovane dirigente del partito, sotto la segreteria Berlinguer), il libro allinea ricordi commossi come quelli della figlia di Enrico, Bianca Berlinguer, del suo autista, Alberto Menichelli, e di un operaio veneto, Silvio Finesso, che è stato fra gli ultimi a stargli accanto; e poi le riflessioni di suoi compagni di partito, come Emanuele Macaluso, Aldo Tortorella, Sergio Segre e Giorgio Napolitano (quale più, quale meno solidale con la sua linea di gradualismo democratico, nella fedeltà al marxismo), giustapposte a quelle di suoi avversari, come il socialista Claudio Signorile, il democristiano Arnaldo Forlani e l’ambasciatore americano dell’amministrazione Carter, Richard Gardner, per non dire del brigatista rosso Alberto Franceschini; oppure le testimonianze di intellettuali non comunisti, ma persuasi della giustezza dell’uomo e della sua linea, come un ex presidente di Pax Christi, monsignor Bettazzi, o l’‘azionista’ Eugenio Scalfari, e quella di chi in fondo non può testimoniare nulla, perché quel Pci non l’ha nemmeno conosciuto, ma forse dice le cose più significative per il lettore d’oggi: e mi riferisco a Lorenzo Cherubini, alias Jovanotti. In questo ventaglio così ampio di opinioni e ricordi è possibile squadernare (a beneficio di chi c’era e ancor di più di chi è nato dopo) un intero capitolo di storia politica nazionale e internazionale, quello riguardante uno dei periodi più contorti e sfuggenti del Novecento, fra rivoluzioni sociali e terrorismo, fra tentativi di golpe e servizi segreti deviati, fra svalutazione e crisi energetica, fra evidenti avvisaglie delle pulsioni liberali (e non solo libertarie) nell’Est europeo e anacronistiche (ma non meno virulente) oppressioni tiranniche, dalla Cecoslovacchia alla Polonia, dalla Cambogia all’Afganistan. Veltroni riesce, così, nell’operazione di presentare in maniera avvincente il tutto, proprio perché non ne fa un racconto ‘monodico’, bensì un immaginario confronto fra uomini distantissimi fra loro, eppure unanimi nel riconoscere la centralità di quel comunista sardo nella trasformazione della politica italiana come spazio della speranza. E questo è valso anche per i suoi avversari, persino di quelli acerrimi, poiché la sua forza attrattiva costrinse anche le forze moderate, da un lato, e quelle eversive, dall’altro, a progettare un ‘salto di qualità’ (qualcuno purtroppo criminale e cruento), che contendesse al Pci quello spazio di egemonia sociale e culturale che si intuiva fosse altrimenti inarrestabile.

Il secondo ordine di ragioni che fa del libro di Veltroni un caso interessante nella corrente pubblicistica politica riguarda la tentazione di ciascun intervistato di accreditare la propria come l’‘interpretazione autentica’ della strategia politica di Berlinguer, talvolta restituendoci di alcuni episodi letture così contrastanti da lasciarci perplessi. Il nodo centrale, come si può intuire, è quello del «compromesso storico» (con sottili disquisizioni persino sull’importanza del primo o del secondo dei due termini), una dottrina la cui autonomia dal paradosso moroteo delle «convergenze parallele» deve comunque essere spiegata all’interno di un processo che inizia con la clamorosa dichiarazione del 1976 circa la preferibilità della Nato al Patto di Varsavia e culmina col fallimentare appoggio ai metalmeccanici della Fiat il 26 settembre 1980 e con l’accentuazione del carattere antagonista della sua segreteria negli ultimi anni.

Pur nella diversità degli strumenti, s’intuisce, però, che il Berlinguer suonato dall’orchestra di Veltroni è quello romantico che avrebbe il suo tempo allegro vivace assai quando può essere indicato come profeta del riformismo liberale (un riformismo ancora privo del coraggio di confessarsi come tale, secondo il curatore) e il suo tempo adagio molto e maestoso quando, inseguendo la chimera dell’«alternativa democratica» o attirando intorno al suo feretro una folla oceanica che si era vista solo al funerale di Togliatti esattamente vent’anni prima, pare suggellare in maniera struggente la morte simultanea di tutto il comunismo e dello stesso marxismo, per il quale non parrebbe esserci alcuno scampo, alcuna stagione ulteriore. È un fatto, intendiamoci, che le cose siano andate così, ma è quanto meno azzardato e storicamente indimostrabile pensare che non avrebbero potuto finire che così. Non si può non tener conto, infatti, delle circostanze assolutamente straordinarie dinanzi alle quali si è trovato il Pci nel giro di appena sette anni dopo la morte prematura del suo uomo migliore, dalla gloriosa stagione della perestrojka gorbacioviana al tentato golpe militare (esitato poi nel riuscito colpo di mano di Eltsin), dall’esplosione del blocco orientale alla nascita del monoblocco imperialistico, dallo sviluppo della società della comunicazione (nemmeno immaginabile nel decennio precedente) alle inchieste di Tangentopoli, decisive per un crollo improvviso e irrimediabile di tutto il sistema partitico italiano, fino ad allora ancorato alla tradizione resistenziale. Quest’ultimo trauma creò nel nostro Paese una situazione per nulla paragonabile a quella del resto d’Europa, così come c’era da attendersi che la desiderata fine del socialismo reale dovesse segnare un’ulteriore fase della trasformazione del più importante partito comunista occidentale.

Affrontare tutto ciò in condizione di orfanità è stato l’ostacolo che quel partito non seppe superare. E intonare l’elegia della morte più ‘bella’ che il comunismo potesse avere è solo un alibi per coprire l’ipocrisia e la pochezza della generazione più giovane che a Botteghe Oscure apprese l’arte del potere. 

 

3 Risposte to "QUANDO C’ERA BERLINGUER: UN FILM E UN LIBRO A CURA DI WALTER VELTRONI"

La riflessione sulla figura di Berlinguer e sulla fine del comunismo all’italiana sarà interessante quando a compierla saranno persone cresciute dopo quei mutamenti; persone dell’età di Daniele o più giovani; non certo gente come Veltroni, anch’egli nato e subito iscritto alla dirigenza del partito, così come si diceva fosse stato di Berlinguer, cresciuto in tempo per diventarlo per davvero, un dirigente del PCI, invecchiato maluccio, direi, se arriva a dire che comunista, lui, non lo è mai stato. Io sono della sua generazione, ho votato comunista per vent’anni , perfino quando avevo capito che la collettività è un’astrazione e la persona invece no: quando si dice il vizio… Di Berlinguer ricordo il coraggio speciale, come quando riuscì a dire, davanti al Politburo schierato e davvero spaventoso dei tempi brezneviani, che la spinta rivoluzionaria del movimento si era esaurita. Che palle. Oggi, tramontati blocchi contrapposti e cortine di ferro, la storia ci regala di nuovo i nazionalismi e le guerre fratricide in Europa. Che ne penserebbe Enrico?
Eugenio Lucrezi

L’Enrico era uno di quegli uomini che stavano bene a tutti, tutto sommato anche ai rivali politici, fosse solo per lealtà, coerenza, strategia, formazione. Scomodo, ma rispettabilissimo. Nonostante i tempi non facili la sua era ancora un’epoca in cui c’era libertà di provocazione, di progettazione, libertà di dissenso. Ora non resta che nutrirsi -ammesso che ci siano bocche e menti affamate – di quella memoria storica, politico/culturale che apparteneva ad una buona fetta della classe politica del tempo, parlo dei vari Moro, De Gasperi, Almirante, Spadolini i cui nomi evocano valori come serietà coerenza affidabilità. I loro successori ci hanno consegnato i cocci di un’Italia mediocre e sgarrupata, così come presuntuosi, bifolchi e zoticoni sono i soggetti politici che attualmente la popolano. E mi fermo qui.

Caro Daniele, ho letto le tue riflessioni sul libro curato da Veltroni su Enrico Berlinguer. Anche io avevo letto il libro in questo profluvio di pubblicazioni edite e riedite in occasione della ricorrenza della morte tragica dell’ultimo, a mio parere, vero leader della sinistra storica nel nostro Paese.
A me il libro non è piaciuto, una raccolta di scritti d’occasione, alcuni poco meditati, ma scritti solo per esserci, ad ogni costo, quando ogni tanto sarebbe meglio ogni tanto starsene defilati (ma perché bisogna sempre scrivere e parlare?).
Quello che non si evince, o non si evince abbastanza, è proprio la straordinaria figura morale di Berlinguer, che è stato capace letteralmente di immolarsi in nome del partito e della sua ideologia (oggi che le ideologie sono stramorte, nel bene e nel male). Come si può dimenticare la sequenza della sua ultima comparsa a Padova, quando volle comunque finire il suo intervento, a costo della morte, è il caso di dirlo ? E come non si può dimenticare il bagno di folla e le lacrime vere di chi partecipò ai suoi funerali ? Ritengo che queste due sequenze basterebbero da sole a farci capire di era Berlinguer, al di là delle riflessioni, delle esegesi, delle analisi.
Uno solo dei contenuti del libro curato da Veltroni mi sento di salvare, le riflessioni della figlia Bianca, proprio perché ci danno una ulteriore testimonianza della sua straordinaria figura umana, della sua semplicità, del suo stile di vita, della sua ferrea disciplina, del suo amore per il mare in tempesta.

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