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CALVINO IN SCENA: “L’AVVENTURA DI UN SOLDATO” DI MAURIZIO DE VIVO

Posted on: 18/10/2019

di Daniele Maria Pegorari

Dall’11 al 13 ottobre 2019 l’Auditorium La Vallisa di Bari ha ospitato Binari paralleli. L’avventura di un soldato, monologo di Maurizio De Vivo tratto da un racconto di Italo Calvino. L’ultima replica è stata introdotta da Daniele Maria Pegorari che in questo intervento ci conduce alla scoperta di questo testo e della sua segreta ‘teatralità’.

«Io scriverei racconti per tutta la vita. Racconti belli stringati, che come li cominci così li porti a fondo, li scrivi e li leggi senza tirare il fiato, pieni e perfetti come tante uova, che se gli togli o gli aggiungi una parola tutto va in pezzi»: così scrive in una lettera privata un ventitreenne Italo Calvino, testimoniando, sin dalle sue origini, una predilezione per la narrazione breve (il racconto, la fiaba), pur mentre portava a termine la stesura del romanzo d’esordio, Il sentiero dei nidi di ragno, che uscirà per Einaudi il 10 ottobre dell’anno seguente, il 1947 (l’epistola citata, datata 8 novembre 1946, era indirizzata a Silvio Micheli ed è compresa in Lettere 1940-1985, a cura di L. Baranelli, A. Mondadori, Milano 2000, p. 167).

Pur dovendo fare immediatamente i conti con le necessità del mercato editoriale – da sempre poco benevolo nei confronti dei racconti – e dovendo accettare, di conseguenza, soluzioni formali che lo conducano alla ‘forma lunga’, il giovane Calvino confessa che la sua scrittura «a denti stretti» non sarebbe adatta al romanzo (inevitabilmente portatore di alcuni «punti morti»), bensì alla ‘descrizione di un attimo’, alla cattura, il più possibile precisa e lucida, di una sola fra le mille sfaccettature possibili della vita. Ultimo viene il corvo, il suo secondo libro, uscito sempre da Einaudi nel 1949, è quello che meglio di ogni altro esprime la libertà creativa e lo spirito autentico di tutta la sua prima stagione: è, infatti, una raccolta di trenta racconti (alcuni dei quali anticipati su rivista), composti fra l’estate del 1945 e la primavera del 1949, sottoposti (come poche altre volte è accaduto nella storia di Calvino) a complesse e ripetute operazioni di correzione, dalla fase manoscritta alla prima edizione in volume, e poi ai successivi nuovi ordinamenti, quello dei Racconti del 1958, quelli della seconda e della terza edizione di Ultimo viene il corvo, apparse rispettivamente nel 1969 e nel 1976, e quello intermedio degli Amori difficili, uscito nel 1970.

La stessa esigenza di tornare più volte su quei racconti risalenti agli anni cruciali del neorealismo, rielaborandoli, incidendo la lingua e strutturando diversamente la sequenza dei testi, attraverso un lavorio che si protrae per quasi trent’anni, indica che questa prima produzione rappresentava per Calvino una stagione mai chiusa per davvero; in una continua oscillazione fra l’aggiornamento etico-stilistico e il recupero quasi filologico delle redazioni originarie, l’autore ritorna continuamente a quel rovello poco più che giovanile, dove si trattava di decidere fra le urgenze politiche della testimonianza antifascista, i primitivi debiti da pagare al neoverismo regionale tipico degli anni Quaranta e una narrazione più libera nella combinazione di temi e colori, mirante già a quella linea fantasiosa e allegorica che culminerà nei grandi libri della maturità: Le città invisibili (1972), Se una notte d’inverno un viaggiatore (1979) e Lezioni americane (postumo). Ed è, dunque, oltremodo affascinante considerare questa relazione mai esaurita con i racconti neorealistici in parallelo col bilancio intellettuale che lo scrittore conclude nel 1980 con Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società, un libro che esplicitamente vorrebbe ‘chiudere i conti’ con la stagione dell’impegno, e che pure rilancia in più punti un’idea di ‘resistenza’ morale e civile della letteratura.

L’avventura di un soldato, interpretata come monologo e messa in scena a Bari da Maurizio De Vivo (Auditorium La Vallisa, 11-13 ottobre), con le musiche originali di Dario Skepisi, è da inquadrare in questo contesto: scritta nel 1949 e presentata ai lettori direttamente nella prima edizione di Ultimo viene il corvo, la novella rappresenta un primo indizio della necessità del giovane Calvino di lasciarsi alle spalle i temi della guerra e di affacciarsi a quelli che Geno Pampaloni avrebbe indicato come «gli universali» e più tardi Bruno Falcetto come «impulsi sentimentali e profondi» (G. Pampaloni, Italo Calvino, in Storia della letteratura italiana, diretta da E. Cecchi e N. Sapegno, vol. X: Il Novecento II, Garzanti, Milano 1987, pp. 554-559: 556; B. Falcetto, «Io ai racconti tengo più che a qualsiasi romanzo possa scrivere». Sull’elaborazione di “Ultimo viene il corvo”, in «Chroniques italiennes, 75-76, 2005, pp. 97-132: 123). Del «fante Tomagra», protagonista di questo racconto, ignoriamo eventuali (e non impossibili) trascorsi bellici e non conosciamo la provenienza né la destinazione: egli ci appare un uomo senza storia e senza età, così come il suo viaggio in treno pare non attraversare una geografia plausibile. Quello che si svolge in questo «scompartimento» si attua, in verità, nello spazio fittizio della pagina, giacché la velocità dei pensieri e dei gesti corrisponde quasi perfettamente al tempo della lettura.

In barba ai proclami circa la necessità di scrivere solo di «fatti» (a cui aderisce lo stesso Calvino, come si può leggere in una dichiarazione di poetica pubblicata sulla rivista «Inventario», 3, autunno 1950, pp. 62-63), qui lo scrittore non solo nasconde la grande storia dietro una meramente allusiva divisa militare, ma sminuzza gli accadimenti, fino a farli coincidere con le meditazioni, le curiosità, i desideri timidi, infine le eccitazioni incontenibili di Tomagra: l’avventura del soldato in verità non si riferisce più ad alcun destino epico o eroico, ma anzi consegue i caratteri effimeri e non necessari di un vagabondaggio picaresco, in cui due anime, anzi, due corpi muti e disillusi si riconoscono accomunati dalla casualità dell’essere al mondo. La drammaticità – certa o eventuale – delle esperienze private e collettive non ha più molta importanza: d’altra parte anche la donna dev’essersela passata male, considerando che il suo «vestito di seta nera» e «il velo» che le piove sul viso «dal giro d’un pesante antiquato cappello» ne fanno intuire lo stato vedovile, anzi «un lungo lutto», con tutta la probabilità, allora, che Calvino volesse suggerire che quella «signora alta e formosa» il marito l’avesse perso proprio in guerra.

Ma anche per lei il dolore pare risucchiato nel buco nero di un passato che non lascia sprigionare più né sogni né riscatti; rimane tutto l’istinto di cercarsi, di riscoprirsi – appunto – corpi ancora vibranti e sensibili, la voglia di chiamare all’appello, uno dopo l’altro, le «palpebre», le «sopracciglia», «le labbra», «le mani», il «grembo», le «braccia», le «spalle», il «torso», i «muscoli», «la gamba», i «tendini», le «vene», le «ginocchia», la «rotula», «i polpacci», le «dita», il «polso», «i polpastrelli», l’«unghia», le «nocche», «il mignolo», «gli occhi», «l’anulare, il medio, l’indice», «il palmo», «il petto», il «dorso», «la carne», «la coscia», la «pelle», «l’orecchio», «il viso», le «ossa», il «sangue», le «falangi», le «anche», «il seno», la «testa». Si direbbe che in queste pagine si condensi tutto un atlante di anatomia umana e che quella frammentazione della storia a cui accennavo prima si rifletta in un’analoga operazione sui corpi, ma con un risultato che vorrebbe essere opposto: come dopo un’esplosione – quella reale e quella metaforica della guerra e della stessa modernità – il fante e la vedova fanno un inventario di quello che resta di sé e riscoprono vibrazioni sottili, energie insopprimibili, nonostante il dolore o il tedio dei giorni, e se le posture generali sembrano immobili e squadrate, ogni singola porzione dei corpi vuol ridestarsi alla vita e all’eros.

L’erotismo è, d’altra parte, la marca stilistica propria di questo racconto (e De Vivo è bravo a metterne in rilievo le sottigliezze e le allusioni progressive) ma, sin dalla revisione per I racconti del 1958 (dove L’avventura del soldato apparve nella sezione intitolata “Libro III”, pp. 321-329), Calvino intese apportare dei significativi tagli che andavano nella direzione di contenere i passaggi più esplicitamente lascivi (qualche autocensura di questo genere interessò anche altre novelle di Ultimo viene il corvo, come Paura sul sentiero, Dollari e vecchie mondane e Si dorme come cani; le varianti sono puntualmente segnalate da B. Falcetto nelle Note e notizie sui testi, in apparato a I. Calvino, Romanzi e racconti, vol. I, A. Mondadori, Milano 2003, pp. 1260-1305): i passi esclusi conferivano al racconto una patina morbosa e sensuale che forse a Calvino doveva apparire estetizzante, quasi decadente, con quei «vortici di tenerezza» che si aprivano nel «sangue» di Tomagra, le sue dita che nuotavano nella «morbida carne» della signora, la descrizione minuziosa degli «elastici che le stringevano la carne a mezza coscia», la lussuria giovanile di lui descritta con un preziosismo come «pietà furiosa» e l’abbandono di lei come «pudica, fanciullesca fiducia» e così via, fra «movimenti continui e generali e minuscoli» della mano «tra coscia e coscia» e l’assalto alla «scollatura» e ai «lunghi muscoli che s’ingrossavano calando giù dall’omero». Ma probabilmente non una preoccupazione moralistica spingeva lo scrittore a correggersi, nove anni dopo la prima edizione, bensì l’intenzione artistica di alleggerire la gravità di quei corpi per esaltare il contrasto fra il torbido delle passioni e l’impassibilità degli atteggiamenti esteriori, come dire fra l’autenticità e le convenzioni, ma anche fra il personale e il politico; variamente definibile come «antipsicologico realismo» (Pampaloni) o come «oggettivismo psicologico» (Falcetto), il procedimento scelto dal narratore è quello di azzerare la distanza rispetto all’attività mentale del protagonista – pur trattandosi di un racconto in terza persona – per far emergere con naturalezza le pulsioni e i timori, le fantasie e le preoccupazioni mano a mano che si affacciano per scatti impercettibili nella vita interiore del soldato (e solo ipoteticamente in quella della vedova), con una coincidenza perfetta fra minuzia del gesto ed enunciato ragionativo.

Lo scrittore si accorge, forse, che solo così può dare campo alla meraviglia di una lenta rinascita delle emozioni, alla contenuta allegria di quel dopoguerra che, più che una fase storica determinata, è divenuta la condizione antropologica dominante del nostro tempo.

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