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Matteo Bussola, L’INVENZIONE DI NOI DUE

Posted on: 02/08/2020

Matteo Bussola, L’INVENZIONE DI NOI DUE

Einaudi, Torino 2020

 

 

di Sara Notaristefano

 

In una Verona dipinta non tanto come la «città dell’amore» di Romeo e Giulietta ma come il luogo dove quell’amore «è morto», vivono Milo e Nadia, quarantaseienni, sposati da quindici anni. Lui ha rinunciato all’ambizione di diventare un architetto, ripiegando su un impiego da cuoco; lei coltiva il sogno di scrivere un romanzo «magnifico», che, negli anni, si rivelerà più che altro un’interminabile fatica. L’inizio del loro rapporto risale all’ultimo anno del liceo, quando Milo trova scritta sul banco una semplice domanda: “Chi sei?”. Per giorni, i due ragazzi, che frequentano classi differenti, si scambiano numerosi messaggi, senza, però, incontrarsi di persona. Come se fossero predestinati ad amarsi, Milo e Nadia s’incontreranno, anni dopo, a una festa, dando vita a un idillio che sfocerà nel matrimonio. Con il trascorrere del tempo, però, Milo e Nadia si allontanano sempre di più; in particolare, a spegnersi gradualmente è la «selvaggia», vitale, empatica ragazza di cui lui si è innamorato anni prima. Nadia sembra restare con lui per inerzia, come se la promessa dell’indissolubilità del loro amore fosse più importante dell’effettivo perdurare del sentimento stesso. Milo attribuisce a se stesso la responsabilità di aver trasformato il loro «amore in cenere» ma, ancora profondamente innamorato della moglie, non vuole arrendersi e, per riconquistarla, ricorre allo strumento che li ha legati anni prima: la scrittura. Sotto falso nome (Antonio), scrive un’e-mail alla moglie, che gli risponde, avviando una corrispondenza che si fa tanto più fitta quanto più labile diventa, nelle loro parole, il confine tra menzogna e confessione.

È bene precisare che la forza di L’invenzione di noi due non risiede nell’accattivante espediente di cyraniana memoria ma nel suo graduale svelarsi come un percorso che ribalterà le premesse. Pertanto, chi legge dovrà armarsi della stessa pazienza investita da Milo nel «progetto» di trasformare la «cenere in amore»: occorre, infatti, superare la stizza che potrebbe suscitare l’amore di Milo, così sdolcinato da sembrare ingiustificatamente ostinato di fronte all’indifferenza, ai limiti del cinismo, concessagli da Nadia, un personaggio che, di primo acchito, potrebbe suscitare antipatia. Occorre, infatti, non arrendersi, come Nadia stessa suggerisce a Milo; operazione tutto sommato semplice, perché la prosa di Bussola scandaglia con malinconica dolcezza e amara lucidità i fondali di un matrimonio che necessita di una forma nuova per non dissolversi. “Inventare” una forma significa, etimologicamente parlando, trovarla. E Milo ricorre alla scrittura perché essa regala l’illusione di dare forma all’inarrestabile fluire di una quotidianità sempre più simile a un inesorabile spreco, a una perdita incessante.

La scrittura è dunque la vera protagonista del romanzo: essa soltanto può contrastare un’incomunicabilità potenzialmente irreversibile, perché reca in sé un’intrinseca autenticità, latente dietro le maschere indossate e le menzogne reciproche che costituiranno paradossalmente le fondamenta più solide e attendibili di una nuova comunicazione. Per Bussola, la scrittura ha un innegabile potere salvifico, i cui effetti sono più sorprendenti in Nadia che in Milo; perché, sebbene Milo si dichiari colpevole sin dalle prime pagine del libro, lo è, in modo diverso ma altrettanto grave, anche Nadia.

La sua colpa può essere racchiusa in una sola parola: cecità. Nadia ha un punto di vista sul marito così esasperatamente parziale da non riuscire a vedere altro se non ciò che ha deciso di vedere; e, non potendo vedere, non riesce a trovare. A inventare. È proprio il suo punto di vista limitato – e limitante – l’ostacolo che impedisce a Nadia di scrivere il romanzo della sua vita. Lo suggerisce anche un passaggio solo apparentemente secondario, in cui un analista, al quale la coppia si è rivolta per superare la propria crisi coniugale, sostiene che «nelle storie, i personaggi obbediscono sempre alla volontà dell’autore», deludendo Nadia che, giustamente, pensa il contrario: è l’autore a doversi piegare «alle decisioni dei suoi personaggi» perché la scrittura è «consenziente schiavitù». Tuttavia, Nadia predica bene e razzola male: sclerotizzata nella propria parzialità, piega, deforma, limita Milo, umiliando, con lui, anche la propria fede nella scrittura.

L’inevitabile resa dei conti tra i coniugi, se da un lato getterà nuova luce sulle responsabilità di Milo, dall’altro, segnerà l’inizio di un nuovo percorso per Nadia, che si rivelerà la vera portavoce di Bussola, sostenendo che: «La vita ci salva dall’illusione senza tempo della scrittura, dalla convinzione cieca che possa bastare a sé stessa, la scrittura ci salva dalla concretezza della vita e dall’impressione che le cose non siano altro che quel che crediamo». Da ciò si evince come Milo fosse immerso nella «vita», nella concretezza dei suoi tupperware di parmigiana di melanzane e delle bollette; almeno quanto Nadia lo era nella «scrittura», inseguendo l’illusione di scrivere un «romanzo che fosse magnifico» mentre, in realtà, era materiato di parole “cieche”, incapaci di trovare – di inventare – nuove possibilità.

Per inventare, ossia per poter trovare, occorre abbandonare percorsi già tracciati, sentieri già battuti e Nadia ci riuscirà solo quando rivolgerà la domanda iniziale – Chi sei? – anche a se stessa. Solo allora Nadia potrà scegliere uno sguardo nuovo, che si distolga sia dalla forma nella quale l’amore pavido e, per anni, arrendevole di Milo l’ha limitata; sia da quella che lei stessa ha costruito su misura per le proprie paure, illudendosi di essere protetta da una simulata indifferenza che, in realtà, la privava del diritto di scorgere nuovi orizzonti.

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