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Francesco Lorusso e Mauro Pierno, Tra i tempi tecnici

Posted on: 28/07/2021

Lorusso-Pierno (copertina), foto

Francesco Lorusso e Mauro Pierno, Tra i tempi tecnici

Spagine, Lecce 2021

di Daniele Maria Pegorari

Nata da un esperimento per un fascicolo di «incroci» dedicato al lavoro (il n. 38 uscito a dicembre 2018) la scrittura poetica a quattro mani di Francesco Lorusso e Mauro Pierno merita di essere segnalata per l’alto valore etico di un’operazione creativa che tenta di forzare la trappola del consueto individualismo artistico per generare un’opera comune, in cui le due voci restino indistinguibili; i due poeti sono già noti ai cultori della poesia contemporanea, con diversi titoli ciascuno, ma qui, senza tradire l’autenticità delle rispettive ricerche, fanno un passo indietro e lasciano in evidenza la mera parola scritta, invertendo provocatoriamente la tendenza letteraria contemporanea. Perlopiù assistiamo infatti – non più soltanto nella narrativa, ma anche nella poesia – a una spettacolarizzazione della letteratura, incentrata sull’attrattività dell’autore trasformato in personaggio, soprattutto se può prestarsi alla maschera del maudit o del performer. Lorusso e Pierno, invece, resistono in nome di una poesia pura, cioè affidata alla lettura e alla condivisione solo in forza dei suoni, dei ritmi, delle immagini e, naturalmente, della sua intelligibilità. Nient’altro, solo linguaggio che prova a diventare arte, partendo dall’ordinarietà delle ispirazioni.

A questa operazione dobbiamo almeno riconoscere non solo il coraggio, ma anche la coerenza, poiché la condizione di cui questa scrittura vuol essere programmaticamente espressione è – come segnalavo all’inizio – quella del lavoro, esperita da Lorusso e Pierno come colleghi in un ufficio pubblico. Difficile immaginare qualcosa di più impoetico, soprattutto in tempi di demonizzazione sociale dell’impiego fisso.

Su questo tema ho avuto modo di scrivere già in passato, ma nel 2021 devo aggiungere qualcos’altro: questa scrittura che nasce su scrivanie affiancate, sotto l’anonimo neon – immaginiamo – di un ufficio polveroso, fra schedari e faldoni di pratiche da evadere, racconta una condizione che rischia di essere irripetibile nel suo anacronismo. Lo smart working, lasciatoci in eredità dalla pandemia e salutato con troppo ottimismo dagli stessi sociologi e giuslavoristi che fino a qualche anno fa tuonavano contro il precariato, non tarderà a manifestare tutto il suo volto ricattatorio nei confronti dei lavoratori (lavoro senza orari e senza mezzi di produzione, in cambio di un salario stabile) e – ciò che forse è peggio – darà un colpo definitivo alla cultura della colleganza, alla fabbrica/ufficio come comunità e cardine della socialità. Lorusso e Pierno, rispettivamente di 53 e 59 anni, ci parlano, invece, dal cuore ingrigito di quell’apparato amministrativo su cui si regge il nostro stare insieme e che pare fatto apposta per spegnere la creatività, la sensibilità e soprattutto l’eccedenza, cioè l’istinto di porsi sempre al di là del necessario, dell’atteso, dell’ortodosso: Tra i tempi tecnici (così si intitola questa raccolta, chiusa da una lunga nota critica di Antonino Contiliano di sapore strutturalista) è invece proprio l’esercizio funambolico di trasformare l’ordinario in poetico, il conforme in abnorme, grazie a una manipolazione continua dei segni linguistici che vengono strappati da quel mondo dell’amministrazione per venire sbalzati in forza di salti metaforici, di paronomasie e di associazioni spiazzanti.

Ritroviamo in queste quarantasei liriche l’arredo di un ambiente impiegatizio, per statuto privo di allure e di magia, quello stesso mondo che, fra gli altri, anche Giovanni Giudici aveva descritto con disincanto: «i corridoi», «la scrivania», i «cassetti», gli «sportelli di una macchinetta», «una torre di timbri», le «cartelle», i «led», «gli interruttori», «gli incarti burocratici», le «matite». È lo spazio in cui i due autori conducono «un lavoro comune», fatto di «dati grafici discendenti», «messa a riposo», «pratiche non evase», un «protocollo», «un orario stanco» o «ridotto», una «perizia di perito», «metri quadri locati», «finestre sfitte» e «appartamenti». Sono «parole tecniche» che non possono non intridere fino in fondo l’immaginario e l’inconscio dei due autori, diventando il tessuto primario di questa poesia, la cui azione materiale, quella della scrittura, non a caso è indicata più volte col verbo tecnico per eccellenza – «digitare» – contiguo ai «click», alle «piattaforme», alle «linee guida» e alle «procedure» dell’«ortodossia digitale» (croce senza delizia del lavoro odierno), misurando, per converso, il «distacco dei colleghi», degli «operatori» e dei «tecnici». Ma qui si gioca la scommessa di Lorusso e Pierno, quella di sovvertire la meta-ideologia degli algoritmi e della tecnocrazia avanzata con l’imprevedibilità della poesia, con lo scarto verso l’imponderabile, con la promessa che questa cibernetica sociale, che pare inarrestabile, possa invece ancora fallire, grazie a una parola liberata.

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«incroci» – semestrale di letteratura e altre scritture

direzione: Lino Angiuli •  Daniele Maria Pegorari • Raffaele Nigro

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