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Michela Marzano, Stirpe e vergogna

Posted on: 09/01/2022

marzano

Michela Marzano, Stirpe e vergogna

Rizzoli, Milano 2021

di Valeria Traversi

Un libro complesso, forte e pieno di sollecitazioni, quest’ultimo di Michela Marzano, che turba, interroga, mette a disagio e fa reagire. E questo è già un punto a favore dell’autrice e della sua coraggiosa operazione tra scavo psicologico e indagine storica, tra stirpe e vergogna. Quest’ultima è l’antidoto all’oblio e alla reiterazione delle colpe, in quanto sentimento dell’errore, il che fa di questa lettura un percorso di conoscenza privata e storica fra segreti e rivelazioni, passato e presente, scontri e riconciliazioni; e, come tutti i percorsi di conoscenza, deve attraversare la sofferenza, il male e il dolore perché possa diventare fecondo, ossia amore.

L’altra parola del titolo, stirpe, ci indirizza alla storia della famiglia Marzano, ricostruita meticolosamente mescolando il rigore storico, garantito dal ricorso ai documenti, e la fiction per colmare i vuoti; si tratta di una vera e propria indagine per ricostruire la parabola umana e politica in primis di nonno Arturo, soldato e prigioniero della I guerra mondiale, fascista della prima ora, magistrato, deputato del Partito nazionale monarchico negli anni Cinquanta, e poi dei suoi figli e dei suoi nipoti. È una storia che parte da una ricerca privata (perché nessuno mi ha raccontato la storia di mio nonno?), ma che si porta dietro il carico del ventennio fascista, delle leggi razziali e della mancata resa dei conti del nostro Paese con quel passato.

Il vero centro della narrazione, in verità, a mio avviso non è la vergogna e neanche il fascismo, bensì la figura del padre, una figura al quadrato perché è indagata in due relazioni, difficili e complesse, quella tra nonno Arturo e suo figlio Ferruccio e quella tra Ferruccio e i suoi due figli, Michela e suo fratello Arturo. La memoria letteraria ci riporta numerosi esempi di problematiche relazioni padri-figli: Telemaco e Ulisse, Zeno e suo padre, Arturo e Wilhem Gerace e, naturalmente, quella struggente richiesta di amore che è la Lettera al padre di Kafka. Anche in questo caso è al padre che Michela si rivolge, perché è lui il depositario delle risposte che cerca, è da lui che parte la frattura familiare, l’interruzione del racconto, sono i suoi comportamenti ad essere indagati, per concludere così: «non ho bisogno di perdonarlo per amarlo».

Quando il marito le fa notare che potrebbe essere pericoloso e dannoso per la famiglia in particolare riaprire vecchie ferite, a Michela torna in mente una frase di Freud: «La forza della verità che cura» (p. 310). Ma quale verità? Anche con i documenti alla mano la memoria ricostruisce il passato in maniera imperfetta. Ma per la scrittrice la ricerca della verità vale di per sé, come percorso, non è mai la quadratura del cerchio, ma solo il tentativo di trovare una bussola su cui orientarci, ammettendo e accettando che «siamo impastati tutti di contraddizioni» (p. 370).

Tra le righe del libro si legge anche un’interessante dichiarazione di poetica sul ruolo e sul valore della scrittura rispetto alla verità storica. Scrivere è incidere una storia sul proprio corpo, farci attraversare da essa, dalle parole, in un rapporto di osmosi e scambio, perché anche quando si scrive d’altri e d’altro scopriamo noi stessi. La scrittura, dunque, come ago e filo che ricuciono (con dolore) i lembi di una ferita, ma anche come balsamo che cura e dà senso a quella stessa ferita. Cos’è la cicatrice se non la ricomposizione di due parti che altrimenti sarebbero separate e continuerebbero a sanguinare? Il giudizio storico e l’umana comprensione sono proprio i due lembi della cicatrice che la Marzano ha voluto ricucire.

Ecco che diventa più chiaro il senso di quella vergogna iniziale, che non è quella di avere un nonno fascista, ma quella di vivere in un mondo in cui ci sono nostalgici di un passato che non hanno conosciuto né di persona né attraverso lo studio e che minimizzano la vera vergogna di quel regime: le leggi razziali. Quello di cui bisogna vergognarsi è non essere riusciti a dare strumenti di conoscenza a intere generazioni, perché il fascismo della prima ora di nonno Arturo è molto più comprensibile (anche se condannabile) di quello ‘a tempo scaduto’ dei nostri giorni, perché ora sappiamo: e abbiamo il dovere di sapere perché solo la conoscenza e la memoria possono farci superare (senza obliare) il passato, per evitare che certe cose accadano ancora, sia pur sotto altre forme. Sono le leggi razziali il grande rimosso della storia italiana (non i nonni podestà o gerarchi), credere che esse siano state solo una concessione a Hitler e che in fin dei conti non abbiano prodotto orrori e morti tanto quanto in Germania.

E qui naturalmente la scrittrice-filosofa non può sorvolare sul cortocircuito che si crea nelle dittature tra legge e morale, tra obbedienza ed etica, e lo fa richiamando la classica figura di Antigone, l’amorevole sorella di Polinice e la suddita disobbediente di Creonte: baluardo, simbolo di quella disobbedienza civile che, anche a costo della vita, è l’unica opposizione alle leggi ingiuste, quelle che pretendono di annullare le leggi morali che «non vivono da oggi o da ieri, ma da sempre». 

Le questioni, le domande, i dubbi suscitati da queste quasi quattrocento pagine sono tantissimi perché, come già detto, questo è un libro che mescola ricerca storica e invenzione romanzesca, passato e presente, saggio e memoir; è romanzo, ma anche lettera, dialogo, flusso di coscienza, intorno a un nodo che è l’importanza di non interrompere il racconto familiare, qualunque esso sia, da una generazione all’altra, perché i non detti e i segreti condizionano l’esistenza più di scomode verità. Solo la conoscenza è la porta d’accesso alle scelte dell’età adulta (chi sono io? quali sono le mie idee, i miei valori? da che parte voglio stare?), accettando anche il disagio, il turbamento, il dolore che può provocare una scelta diversa, se non addirittura opposta, a quella dei genitori. La crescita è una faticosa lotta per staccarsi dai genitori, sempre, anche quando si condividono le stesse idee: i figli giudicano, disobbediscono, infrangono regole per conquistarsi il proprio posto nel mondo sapendo, però, che l’amore dei propri genitori c’è.

Oggi un libro come questo non vuole affatto riaprire ferite e questioni ormai passate, ma si offre come una duplice lettera: ai padri perché raccontino ai figli, e ai figli perché accolgano questi racconti per provare a riallacciare il legame tra le generazioni, abbandonando l’illusoria e dannosa scorciatoia dell’oblio, riacquistando una memoria che diventa volano per un futuro meno ‘liquido’.

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