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Cesare Viviani, OSARE DIRE

Posted on: 12/11/2017

Cesare Viviani, OSARE DIRE

Einaudi, Torino 2016

 

 

 

 

di Claudio Toscani

Provoca sin dal titolo, Cesare Viviani, in quest’ultima sua raccolta: Osare dire. Perché si mette nella posizione di chi azzarda la parola poetica come nudo nome di fronte all’ostentata eloquenza del mondo, di chi ci ricorda il silenzio dell’universo al di sopra del nostro frastuono quotidiano, di chi oppone la parte oscura, segreta, del segno creativo e della scrittura, a tutte le inesorabili rivelazioni della scienza e della tecnica.

Parecchio osa dirci Viviani: se non di nuovo, di inatteso; se non di ignoto, di dimenticato; se non di perturbante, di ultimativo. Talvolta ci mette l’‘io’, se può testimoniare in proprio, come per significare di esserci passato lui stesso nei frangenti pratici o ideali di cui parla; più raramente la ‘terza persona’, quasi per chiedere ad altri di collaborare al ventaglio delle enunciazioni; spessissimo il ‘noi’, un io allargato, un io a nome di tanti altri, e allora diventa filosofo e conoscitore della vita, con punti di vista sulle cose ultime, senza vanto ma per verticale ascolto della realtà, libere associazioni e connessioni di senso.

E dice della natura: animali, piante, stagioni; montagne, terreni, sentieri; fiori, fiumi, orizzonti. L’ambiente, insomma, il creato: dal microbo al filo d’erba al pianeta all’infinita potenza del cosmo. Una natura non volutamente maligna, ma disinteressata; leale ma anche letale; bastante a sé stessa ma persino provvida se rettamente impiegata. Per contrapporvi l’indole umana, arrogante, quasi sempre malvagia, intenzionalmente distruttiva, con i limiti dell’incomprensione, della menzogna, del delirio da potere e del privilegio. Nell’oscura notte dell’umanità il poeta cerca per sé e per i lettori un’altra consapevolezza, una ‘veste’ nuova, una guida, un abbraccio. L’eternità d’una fede oltre le confuse trasformazioni del reale, perché nostre padrone sono le tenebre, la natura appunto, la paura mentre serve coraggio, servono perdono, umiltà e speranza. «E se fossimo noi la luce del giorno, / e non il sole?» si chiede Viviani. «E se il tempo fosse solo pensiero?». Ma non lasciamo che la vita passi senza che ne accorgiamo, ecco la risposta.

Sui grandi misteri, quasi tutti hanno osato dire la loro. Qui leggiamo che se è vero che tutto è sull’orlo della fine di ciò che ci circonda, l’uomo non cessa di rivestirlo di progresso, di conquista, di trionfo, anche se poi, nella sua operosità, è costretto a vedere più smarrimento che progresso. La morte resta l’illeggibile ulteriorità della vita, che accada per guerre o cataclismi o massacri, per sciagura o per tortura. «E io dove andrò?», chiede il padre al figlio, sembrando riferirsi a un imminente lascito di libri, mentre allude a una via alternativa alla morte.

Non c’è discorso che alla fin fine non s’imbatta in Dio: come parola, pensiero, ipotesi, ossessione. Che osa dire Viviani a proposito? Si ostina a credere in ciò che non si vede. E continuamente si assilla, si tormenta, si avvilisce della cecità umana: prova a mettersi nei panni di chi non crede, ma non riesce a vivere nell’infinità vanità del tutto. Inizia infatti pronunciando la parola «altrove» e subito non può che conseguirne un invito: «Fate arrivare l’Onnipotente, / ci vuole, basta con le restrizioni». Sia che operi una immaginaria sezione trasversale del pianeta, un geodetico taglio della terra (il bosco, il sottobosco, i fossili, i resti del mare dei millenni, e giù sino al fuoco incandescente della materia) a toccare la potenza della creazione, a costringersi a credere in quell’Uno nel quale quasi tutti risorgono, perché chi ha preferito il nulla al credo, il nulla avrà più che l’inferno, annichilito dal «Vuoto Divino».

E osa dire del tempo, Viviani, di quando il futuro sarà passato e avrà trascinato gli spazi in un’altra dimensione, o sarà avvenuto un disastro planetario, o sarà scoppiato l’universo, o scesa l’«onda celeste», o l’umanità mutata in altra specie.

Ma fa parlare la poesia, Viviani: ne onora l’evento, crea una sua lingua, perché ogni lingua è un mondo e il mondo dei poeti è anch’esso un mistero da ‘osare dire’. Accordi, assonanze, musica, associazioni, figure: il coraggio della retorica, insomma, come tecnica e come disciplina, parole e silenzio, espressività e ricerca.

«Sarà stata prigione o isolamento / ma a un certo punto arrivarono le parole, / e allora non c’è più prato e cielo, / ricordi e prossimità, / paradisi e conforto, / prove di libertà, / ci sono loro».

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«incroci» – semestrale di letteratura e altre scritture

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