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FRESCHI DI STAMPA/ a cura di Antonio Lillo

Posted on: 06/08/2014

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di Antonio Lillo

 

Marco Amendolara, IL CORPO E L’ORTO, La Vita Felice, Milano 2014

Non si può che definire splendida quest’ultima raccolta di Marco Amendolara, pubblicata postuma ma ordinata nella sua sequenza dallo stesso autore poco prima della morte. Ed è difficile, infatti, non ravvisare o perlomeno separare il senso ultimo dell’opera dalla vicenda umana e autobiografica del poeta campano. L’opera, ovviamente, nella sua sfaccettatura offre molti più appigli e significati nascosti di quanti se ne possano semplificare qui, eppure il tema cardine, di chiare influenze classiche, riguarda la dolorosa presa di coscienza del passaggio dalla gioventù alla maturità – il libro è stato scritto intorno ai quarant’anni dell’autore –, l’avvertire come questo passaggio porti il corpo, irreversibilmente, alla corruzione, lo conduca all’inevitabile fine, e come ne consegua l’ossessiva ricerca di una possibile estrema soluzione, che il poeta ci offre in un’immaginifica, cruenta e a tratti morbosa metamorfosi.

«Vorresti abbandonare il corpo/ rimanendo in vita» scrive rivelandosi, e poi «quando non hai corpo ti conosci meglio». Il resto del libro è una lunga sequenza dei tentativi di avvicinarsi, attraverso la parola, a quell’ideale salvezza: farsi orto, perché «il corpo con nessun corpo coincide» e deve quindi (non potendo salvarsi nell’altro) farsi natura; ritornare di continuo attraverso le stagioni e le cure, accogliere in sé e sfamare, e in senso più fantastico essere attraverso la popolazione microscopica dell’orto, che sembra venir fuori da un acquerello di Paul Klee: gatti, ranocchi, uccelli, insetti e piante, vitali e brulicanti nel sogno, «e tu, dissolto, cenere,/ tu stesso orto». Poesia, dunque, sulla fine del corpo e contro la sua fine, sul lungo processo di dissoluzione del corpo stesso e mutazione in orto, in terra. Il corpo e l’orto, a dispetto quindi della prima impressione, che può far pensare al diario di un uomo che si appresta a lasciare la vita, è invece, di contro, il canto d’amore alla vita di un uomo che si sente inadeguato ad affrontarla e chiede così di potersi espandere oltre se stesso, fino ad abbracciarla e farsene pervadere: «era tutto orto, lo spazio/ che ti abitava». Polvere alla polvere. Polvere alla vita.

Adam Vaccaro, SEEDS, Chelsea Editions, New York 2014

Seeds è un lavoro rimarchevole sotto un doppio punto di vista, sia come raccolta in sé sia come operazione editoriale: la scelta di una serie di testi scritti nel tempo e riorganizzati secondo delle coordinate interne che evitano la disposizione antologica per diventare invece opera nuova. I testi, inoltre, vengono presentati in doppia lingua, con traduzione inglese, e pubblicati all’estero, cosa oggettivamente rara nel nostro panorama poetico. Adam Vaccaro è un animatore culturale che ha vissuto quasi tutta la sua vita a Milano ed è fautore di una particolare corrente di scrittura, definita «adiacenza»: ovvero la negazione di una ricostruzione della realtà, nel testo, esclusivamente lineare, e in cui prevale non tanto la logica narrativa quanto piuttosto quella sensoriale, di intersecazione dei numerosi canali percettivi attraverso cui percepiamo e facciamo esperienza del mondo. Il testo sembra esplodere così nei suoi numerosi significati o impressioni, che vengono poi disciolti in un canto denso, muscolare, in cui si intuiscono reminiscenze neoavanguardistiche, ma sempre controllato e non privo di ironia anche spicciola: «sono l’unico ormai che dall’alto può cantare/ nel berlusconistan nel berlusconistan/ esplodi seme esplodi e fammi sentire/ fammi sentire il suono della vita che/ rinasce e rinasce nel micro e nel macro». Nella prima parte Seeds è rivolto alle presenze della memoria, memoria che per certi versi si fa politica, scontro, nel suo legarsi al tempo presente; nella seconda questa tensione si spinge verso territori estremi, quasi metafisici, e ancora più sperimentali. Notevole il lavoro di Sean Mark come curatore e traduttore dell’opera, che tende ad attenuare le asperità sperimentali della scrittura di Vaccaro (anche nella composizione tipografica del testo) per dare maggiore risalto alla componente musicale che spesso, in inglese, viene enfatizzata dalle possibilità offerte dalla lingua.

Alessandro Quattrone, PROVE DI LONTANANZA, Book Editore, Ro 2013

Economia della distanza, questo il tema dichiarato del nuovo libro di Quattrone, uscito a vent’anni dall’ultima prova e dopo un lungo silenzio editoriale. Fare e disfare economia di tale distanza, metterla alla prova, sforzarla e tenderla fino al possibile e oltre, partendo dalle “prove di lontananza” della prima parte, che da sola occupa metà del volume, suddividendosi in tre sezioni rivolte a mettere a tiro il tu «falsovero dei poeti» (Sereni); poi nelle poesie occasionali di viaggio e quelle che ruotano attorno al tema (di montaliana memoria) delle occasioni mancate che schiudono a loro modo rivelazioni; infine attraverso quello della discendenza, in composizioni che toccano la comunanza/distanza dai propri genitori e dai figli, nel capitolo più breve e al contempo più commovente del libro, posto giustamente ad epilogo di questa lunga esplorazione di sé nella risonanza provocata dal suo toccare e poi allontanarsi dalle cose del mondo. Quattrone si conferma poeta di grande maturità espressiva e di mestiere, con versi allo stesso tempo raffinati e nitidi, dalla forte musicalità e allo stesso tempo classici, carichi di echi che rimandano ai maestri, alla storia della nostra poesia. Proprio per questo, fra composizioni in genere assai brevi e che a volte rivelano, nella loro leggerezza, il peso di tanta storia, quelle brevissime, di carattere gnomico o sapienziale, con venature zen che le svincolano del tutto dal passato per ritagliarsi un posto a sé nel libro e fuori dal tempo, sembrano le più riuscite: «La rondine sa cos’è il richiamo/ cos’è il ritorno, il lieve turbamento./ Il lampo sa cos’è la solitudine/ del durare un istante illuminando».

Walter Cremonte, VICINI, Lietocolle, Faloppio 2014

Walter Cremonte, poeta perugino dall’esistenza schiva, gentile e priva di clamore, non è nuovo a guardare il mondo dalla sua fine. Lo aveva già fatto, mirabilmente, in Contro la dispersione e Cosa resta, raccolte tanto brevi quanto intense e tese ad appuntare sulla carta le tracce di una presenza intima e segnata dal dolore. Lo fa, a distanza di anni – e dopo un’opera fondamentale e a suo modo “politica” com’è Respingimenti, che allarga il suo orizzonte fino ad abbracciare i clandestini che approdano sulle nostre coste – con Vicini, pubblicato nella collana “solo dieci” di Lietocolle, e di certo il suo lavoro più puro. Poesia distillata e allo stesso tempo di carattere testamentario, tesa ad affidarci, perché resistano, i piccoli tesori dei giorni, fatti di presenze che si imprimono nel profondo come ombre sulla carta emulsionata coi sali d’argento. «Cosa possiamo dire più di questo/ per salvare dal nulla/ dell’ultimo abbandono/ quel dono» scrive, «appena prima che tutto ricada/ nel niente da dove è venuto». Versi che vengono dal buio, quindi, come bagliori tesi a rivelare queste immagini minute e perfette, che vanno al cuore della vita stessa, alle sue ferite, con un linguaggio asciutto e privo di fronzoli. Eppure quella di Cremonte, pur in tanta sofferenza, a dispetto del silenzio ovattato che la pervade, è poesia di carattere consolatorio, la cui esigenza profonda non è quella di svelare il vuoto intorno a noi, piuttosto di offrire un appiglio, una presa sicura al lettore, proprio sul vuoto. Vicini – con la sua collezione di alberi che ci sono fratelli (l’ulivo, i castagni, i faggi), e poi il cane morto, l’uccellino che ricorda Charlie Parker, le cose che avvelenano la vita dandole però sapore, i cari estinti che non sappiamo se ci ascoltano o meno nella nostra illusione dell’eterno – conferma un’idea di perfezione assoluta eppure malinconica, in cui il mondo sussiste in equilibrio sulle proprie mancanze e colma l’assenza coi ricordi. Forse l’unico modo consapevole di vivere.  

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