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Pietro Federico, Mare aperto

Posted on: 15/04/2016

 

 

Pietro Federico, Mare aperto 

Aragno, Torino 2015

 

 

 

 

di Vito Russo

Nel commentare in postfazione “Mare aperto” di Pietro Federico, Umberto Piersanti individua tre momenti, tre toni poetici, tre stilemi, nella raccolta: vicenda, sguardo e riflessione.

Diciamo subito che gli esiti a nostro avviso più rilevanti vengono raggiunti da Federico quando è lo sguardo a prevalere. Lo sguardo del poeta e del lettore individua paesaggi ora precisi, netti, ora sfuocati, dai contorni sbiaditi, fino a farsi metafisica riflessione sul mondo e sull’io, come nella pittura impressionista o nel realismo di Hopper, dai colori brillanti ma freddi, che non trasmettono vivacità ma inquietudine, solitudine: “C’è una bambina nell’angolo di un soggiorno / che guarda me o nessuno, nel buio”.

“Non dipingo quello che vedo, ma quello che provo” disse Hopper, appunto, e ci sembra essere questa la spinta creatrice assecondata da Federico, il quale ammette “Siamo ciò che abbiamo dentro. / Siamo anche nel cuore del mondo”. Anche quando il tono prevalente è la vicenda, questa non è altro che il pretesto per rivolgere lo sguardo verso il paesaggio poetico dell’io lirico, verso quel mare aperto che è dentro di noi. “Vidi me stesso riflesso nel vetro / sopravvissuto come un vedovo, un pallore da barbone”, leggiamo in questi versi che tentando di comunicare l’incomunicabile, non possono che prendere atto dell’impotenza del linguaggio, e rifugiarsi negli affetti: “Non comprendevo più / parole come “salpare”, “conoscere”, “tu”, / e perché tutti continuassero a parlare, / perché lampioni, volti e calze / risplendessero nel silenzio”. D’altronde “Non avete dato alla luce le stelle / ma il mio sguardo che si leva” ammette Federico nel testo che chiude la silloge, rivolgendosi al padre e alla madre.

Ecco quindi che il mare aperto non è che il luogo interiore, il cuore pulsante, centro nevralgico, nucleo dell’uomo dove si concentra e batte quel “bene conosciuto che ci porta / al centro di un’eterna solitudine”, una solitudine buona, di cui il poeta prova un’irrazionale e inspiegabile compiacimento.

Ispiratissimi i testi di apertura della raccolta, resi densi e sensuali dal lirismo profondo delle immagini, e intessuti da un gioco di consonanze e assonanze che abbraccia e ammalia il lettore. Federico avrebbe potuto a nostro avviso raggiungere esiti migliori laddove si abbandona eccessivamente alla prosa e alla biografia, e rischia di rendere retorico il dettato poetico. Tuttavia la riflessione, anche quando parte dal dato biografico, è sempre in dialogo con l’altro e non si ripiega su se stessa, poiché cerca nell’altro un senso, come leggiamo in questi versi tratti dalla sezione “The first morning in the world” in lingua inglese, dedicata alla figlia del poeta in arrivo: “shaky stars in the dawn are enough for laughing / in the face of the death, of nothing, / are enough to besiege me with whats, hows and whys. // Although you are not born yet / I see with your eyes”.

Il merito maggiore della raccolta tutta sta senz’altro nella sincerità di una voce calda, che non bara, non si inerpica su sentieri ripidi, che ha la forza autentica di dire, di raccontare, di specchiarsi nel mare aperto e di pronunciare quel “bene che abbiamo e non ci siamo scelti”, ma di cui avere fiducia, “something we found”.

 

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