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Ruggiero Stefanelli, FORSE QUASI CHISSÀ

Posted on: 08/04/2019

Ruggiero Stefanelli, FORSE QUASI CHISSÀ

Il seme bianco, Roma 2018

 

 

 

di Daniele Maria Pegorari

Quando la sapienza dell’italianista di lungo corso – maturata dietro una cattedra di Letteratura italiana nell’Università di Bari – e una consuetudine con la pedagogia s’incontrano con un’esperienza familiare di disabilità drammaticamente reale, può accadere che ne scaturisca un’ottima lezione, magari un ciclo di conferenze, preceduto o seguito da un saggio testimoniale. Ma quello che è successo a Ruggiero Stefanelli – che, allentati gli impegni scientifici, ha già pubblicato nel 2012 un romanzo, Ombre sulla basilica, e nel 2014 una raccolta lirica, Poesie dal tempo – va oltre l’autobiografia familiare per divenire ‘racconto di realtà’, vale a dire una storia d’invenzione, ma così fondata sull’esperienza reale e sulla documentazione neurologica e pedagogica, da offrirsi come una lettura avvincente, senza perdere in precisione e credibilità. A trenta anni esatti da quell’intenso cult movie che fu Rain man (che vinse un Orso d’oro a Berlino e ben quattro Oscar, fra cui quello a un magnifico Dustin Hoffman, la cui difficilissima interpretazione si meritò anche un Golden Globe e un David di Donatello), il nuovo libro di Stefanelli, Forse quasi chissà, ci trasporta ancora nel misterioso mondo dei Disturbi dello Spettro Autistico (o semplicemente ‘autismo’), una patologia complessa, sempre più frequentemente diagnosticata, che inficia gravemente non solo l’interazione sociale e la capacità di generalizzare gli interessi (come nella consimile sindrome di Asperger), ma anche la facoltà linguistica. Non sempre questi disturbi si associano a un ritardo mentale più o meno marcato e questo contribuisce a fare del soggetto autistico una persona potenzialmente consapevole del proprio stato di disagio, senza però agevolarlo nel processo di autocontrollo e superamento degli ostacoli che sono di natura primariamente neurologica e non psichiatrica.

Ma non occorre sapere tutto ciò al lettore di questo bel romanzo, poiché l’autore lo prende per mano e lo porta nel cuore della vita sconvolta di Diomede, padre divorziato poco più che quarantenne che si vede ‘recapitato’ da un treno proveniente da Roma, il figlio quattordicenne, Dario, affetto appunto da autismo, del quale la madre Alda, colpita a sua volta da una malattia neurodegenerativa senza speranza, non può più prendersi cura. Quello che segue è la delicatissima e struggente storia di un padre a cui tutto era andato storto, anche il lavoro in una società di comunicazione, perduto, nonostante la laurea, e surrogato con la pulizia delle vetrine dei negozi (in nero, ça va sans dire); ma nella sua vita in frantumi e disordinata deve trovare ora posto per Dario che, al contrario, ha bisogno di ordine, punti di riferimento stabili, attività ritualizzate e tanta, tanta pazienza.

L’uomo, sei anni dopo, alla soglia dei cinquant’anni, troverà in una vecchia stampa appesa nella camera del figlio un’allegoria della sua bloccata esistenza: il quadretto (il primo oggetto ammirato da Dario appena giunto nella sua nuova casa) rappresentava un veliero, la cui fissità sulla parete rivelava ora a Diomede l’irresolutezza che gli era sempre stata rimproverata e da cui faticava a riscattarsi. Se, infatti, «il veliero [rappresentava] la sfida all’ignoto […] quel microcosmo di stanza era ancora la cabina di navigazione da cui non era mai sbarcato e da cui forse non voleva sbarcare, il suo viaggio continuava ma come un’inspiegabile deriva» (p. 133). Come in una celebre scena di Novecento di Alessandro Baricco, anche in questa pagina l’inettitudine o il disadattamento alla vita prendono la forma della paura di scendere dalla nave, che è il segno rivelatore del bisogno di affrontare le relazioni in uno spazio protetto, quasi grammaticalmente o matematicamente organizzato. E così il padre comprende che al fondo della sua ‘convenzionale’ normalità c’è non poco del terrore comunicativo di quel figlio speciale.

Diomede e Dario compiono un difficile cammino di riconoscimento reciproco, portato ai limiti del fallimento dalla loro prolungata lontananza e dalla scarsità di ricordi comuni che possano fare da tessuto connettivo di un rapporto che pacifichi il padre e dia speranza di autonomia al figlio. Speculare a questa coppia maschile è però quella femminile di Lidia e Nadia, madre e figlia vicine di casa la cui sorte pare essere stata del tutto opposta a quella di Diomede e Dario: Lidia è, infatti, una ragioniera diventata una manager intraprendente e vincente, mentre Nadia è una studentessa esplosiva e sensibile. Sembrerebbero dinamiche familiari inconciliabili, eppure un segreto dolore che le due donne portano con sé sarà la chiave di volta di uno slancio solidale e poi addirittura di un doppio innamoramento che ribalterà ogni previsione di conclusione rovinosa e ripristinerà un principio di speranza.

Non intendo togliere al lettore il piacere di scoprire da sé i misteri che queste quattro vite custodiscono e come essi, da materia oscura, si trasformino in una felicità possibile. Vorrei, però, suggerire di gustare il romanzo come una lenta climax fino al capitolo xvii che è una vera e propria educazione sentimentale ‘speciale’, una tenera introduzione alla possibilità di amare integralmente un giovane autistico, aprendo una minuscola breccia nel suo auto-confinamento, con un beneficio che inaspettatamente si proietterà sullo stesso Diomede. Superate e dissolte le ombre del passato, proprio Dario regalerà al padre un nuovo segreto che, come un «regalo» (p. 154), cementerà per sempre il loro legame ritrovato.

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